Il Nostro Sacro Onore. Джек Марс
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Название: Il Nostro Sacro Onore

Автор: Джек Марс

Издательство: Lukeman Literary Management Ltd

Жанр: Триллеры

Серия:

isbn: 9781094304731

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СКАЧАТЬ diretto dello stesso Maometto. Difficile affermare che il camionista fosse un musulmano devoto, ma alla gente come Qassem quella roba pareva piacere.

      Si voltarono insieme. Gli uomini avevano già finito di rimuovere la lamina di metallo che copriva il camion. Adesso era stato svelato il vero mezzo. La parte anteriore era più o meno come prima – la cabina di un articolato, verniciata di colore verde scuro. Il lungo retro del mezzo era una piattaforma missilistica di lancio piatta a due cilindri. A giacere su ciascun cilindro di lancio c’era un grosso missile argentato, splendente e metallico.

      Le due parti del camion erano separate e indipendenti l’una dall’altra, ma erano attaccate nel mezzo da un sistema idraulico, e su ciascun fianco da catene d’acciaio. Questo spiegava perché fosse stato difficile da controllare – la sezione posteriore non era assicurata a quella anteriore tanto saldamente quanto sarebbe piaciuto al conducente.

      “Trasportatore Elevatore Lanciatore, lo chiamano,” disse Qassem spiegando al camionista che cosa aveva appena portato lì. “E solo uno dei tanti che il Perfettissimo ha trovato buono portarci.”

      “Ah sì?” disse il camionista.

      Qassem annuì. “Oh sì.”

      “E i missili?”

      Qassem sorrise. Era beatifico e calmo, il sorriso di un santo. “Armi molto avanzate. Lunga distanza. Accuratissime, per questo mondo. Più potenti di quanto abbiamo mai conosciuto. Dio volendo, useremo queste armi per mettere in ginocchio i nostri nemici.”

      “Israele?” disse il camionista. Quasi soffocò alla parola. Gli venne voglia di mettersi in cammino verso nord in quel preciso istante.

      Qassem gli mise una mano sulla spalla. “Dio è grande, fratello mio. Dio è grande. Molto presto, tutti sapranno con precisione quanto è grande.”

      Si allontanò, zoppicando verso il lanciatore di missili. Il camionista lo guardò andare. Diede un altro tiro alla sigaretta, che si era fumato fino alla fine. Si sentiva un po’ meglio, più calmo. Il suo lavoro era finito. Quei pazzi potevano cominciare un’altra guerra, se volevano – probabilmente a nord non ci sarebbe arrivata.

      Qassem allora si voltò e lo guardò. “Fratello,” disse.

      “Sì?”

      “Questi missili sono un segreto, sai. Nessuno può sentirne parlare.”

      Il camionista annuì. “Certo.”

      “Hai amici, famiglia?”

      Il camionista sorrise. “Sì. Una moglie, tre figli. Piccoli. Ho ancora mia madre. Sono noto nel mio villaggio e nel circondario. Suono il violino da quando ero piccolissimo, e tutti mi chiedono una canzone.”

      Fece una pausa. “Una vita piena.”

      Il sayyid annuì, un po’ triste.

      “Allah ti ricompenserà.”

      Al camionista quelle parole non piacquero. Era la seconda volta che Qassem menzionava la ricompensa. “Sì. Grazie.”

      Vicino a Qassem, due grossi uomini si tolsero i fucili dalle spalle. Un secondo dopo li avevano pronti, puntati sul camionista.

      Il camionista si mosse appena. Non sembrava giusto. Stava accadendo così velocemente. Il cuore gli martellava nelle orecchie. Non si sentiva le gambe. Né le braccia. Aveva intorpidite persino le labbra. Per un secondo, cercò di pensare a che cosa potesse aver fatto per offenderli. Niente. Non aveva fatto niente. Tutto ciò che aveva fatto era stato portare lì il camion.

      Il camion… era un segreto.

      “Aspettate,” disse. “Aspettate! Non lo dirò a nessuno.”

      Qassem adesso scosse la testa. “L’Onnisciente ha visto il tuo bel lavoro. Ti aprirà i cancelli del Paradiso questa sera stessa. È la promessa che ti faccio. È la mia preghiera.”

      Troppo tardi, il camionista si girò per scappare.

      Un istante dopo, udì il forte CRACK quando la prima arma sparò.

      E si accorse, mentre il terreno gli veniva incontro veloce, che la sua intera vita era stata vana.

      CAPITOLO DUE

      11 dicembre

      9:01 ora della costa orientale

      Studio Ovale

      Casa Bianca, Washington DC

      Susan Hopkins non riusciva quasi a credere a quello che vedeva.

      Si trovava in piedi sul tappeto del salottino dello Studio Ovale – le comode poltrone dagli alti schienali erano state rimosse per i festeggiamenti della mattina. Trenta persone gremivano la stanza. Kurt Kimball e Kat Lopez le stavano accanto, così come Haley Lawrence, il suo segretario della Difesa.

      Lo staff della residenza della Casa Bianca era tutto lì su sua insistenza, lo chef, le cameriere, i domestici, che si mescolavano agli altri invitati – i direttori della National Science Foundation, della NASA e del National Park Service, per dirne alcuni. C’era una manciata di personalità del giornalismo, così come due o tre cameramen attentamente selezionati. C’erano molti agenti dei servizi segreti, accostati alle pareti e a punteggiare la folla.

      Su un grosso monitor televisivo montato vicino alla parete di fondo, Stephen Lief, un uomo che Susan poteva aspettarsi di non vedere mai in carne e ossa finché il suo mandato di presidente non fosse finito, stava per prestare il giuramento del vicepresidente. Stephen era sul finire della mezza età, assennato negli occhiali rotondi, i capelli grigi che si diradavano e si ritiravano sulla cima del cranio come un esercito in una ritirata disorientata. Aveva un corpo vagamente a pera, nascosto da un gessato Armani blu da tremila dollari.

      Susan conosceva Stephen da tempo. Sarebbe stato il suo sfidante principale nelle ultime elezioni, se non fosse intervenuto Jeff Monroe. Prima, nei suoi giorni da senatore, era stato l’opposizione leale dei banchi opposti, un conservatore moderato, anonimo – cocciuto ma non pazzoide. Ed era un uomo carino.

      Ma era anche del partito sbagliato, e per questo lei si era beccata molte critiche accese dagli ambienti liberali. Era un possidente terriero aristocratico, di famiglia ricca – uno della Mayflower, la cosa più simile alla nobiltà che avesse l’America. A un certo punto, pareva che avesse pensato che diventare presidente fosse suo diritto di nascita. Non certo il tipo di Susan – gli aristocratici che si credevano dei privilegiati tendevano a mancare del tocco comune che aiutava a connettersi con le persone che, ipoteticamente, si dovevano servire.

      Era un provvedimento che dimostrava quanto Luke Stone le fosse entrato dentro, anche solo che avesse preso in considerazione Stephen Lief. Era stata un’idea di Stone. Stone gliel’aveva presentata scherzando, mentre i due giacevano insieme nel grande letto presidenziale. Lei stava riflettendo ad alta voce sui possibili candidati alla vicepresidenza, e Stone aveva detto:

      “E perché non Stephen Lief?”

      Lei aveva quasi riso. “Stone! Stephen Lief? Ma dai.”

      “No, dico sul serio,” aveva detto.

      Era СКАЧАТЬ