Название: Lo Senti Il Mio Cuore?
Автор: Andrea Calo'
Издательство: Tektime S.r.l.s.
Жанр: Современная зарубежная литература
isbn: 9788873042891
isbn:
Tornai in possesso della casa e del poco denaro che era rimasto, quello non speso da mio padre per pagarsi l’alcol e gli altri suoi vizi. Posai a terra l’urna con le ceneri, in un posto nascosto perché non potesse essere vista. Mi fermai nella casa ad ascoltare i rumori del silenzio, osservando le impronte delle mani lasciate nella polvere non rimossa sopra i mobili. Sentivo le grida e i pianti di mia madre, quelli che io soffocavo nella notte cantandoci sopra una filastrocca abbracciata al mio pelouche. Sentivo i lamenti e i singhiozzi di pianto che seguivano le bufere. Guardando verso la poltrona dove sedeva mio padre potevo vedere un uomo solo, un anziano ormai privato della sua vita. In un angolo notai un bastone, lo immaginai tenuto stretto fra le sue mani mentre a stento camminava per la casa forse alla ricerca di qualcuno da picchiare. Qualcuno che ormai non c’era più. Un uomo costretto a sfogare la sua ira contro se stesso, fino al giorno della resa. Sopra una mensola trovai un portafogli, lo presi e lo aprii. Conteneva pochi spiccioli e una foto di mia madre che mi teneva in braccio. Sorrideva felice, ed io con lei. Girai la foto, riportava una data. Era il giorno del mio compleanno, quello in cui ricevetti il pelouche in regalo. Da quel giorno in avanti qualche cosa cambiò, la fiaba della famiglia felice lasciò il posto all’incubo di una esistenza privata del suo futuro. I miei vaghi e annebbiati ricordi non mi permisero mai di focalizzare quel momento, l’incidente di percorso che cambiò per sempre il corso delle cose e delle nostre esistenze. “Deve passarne di tempo prima che io diventi concime per le piante!”, gridava spesso mio padre nei suoi momenti di ira. Quel tempo era passato per lui come sarebbe passato per tutti. Era giunto il momento che si trasformasse in ciò che lui stesso aveva sempre rifiutato. Presi l’urna e ruppi il sigillo. La aprii e versai tutto il suo contenuto in una bacinella aggiungendo dell’acqua. Mescolai bene con un cucchiaio, disgustata. Uscii in giardino e versai quella poltiglia fangosa sulle radici delle piante, curiosa di vedere che cosa sarebbe accaduto. Ma rimasi delusa perché non accadde proprio nulla.
Restai a dormire nella casa quella notte, poi una seconda e una terza. Ma senza riuscire a chiudere occhio. Non potevo più stare lì dentro, non mi apparteneva più. Misi la casa in vendita e non dovetti attendere molto per liberarmene. Venne acquistata nel giro di poche settimane da una famiglia di tre persone, padre, madre e una bambina. Senza dir nulla augurai loro una vita migliore di quella che avevo avuto io lì dentro. Quando li salutai consegnai alla bambina il mio pelouche.
«Tieni piccola, è tutto per te».
«Oh, come è bello! Mamma, papà, guardate che cosa mi ha regalato la signora!», gridò entusiasta rivolgendosi ai genitori che, felici, mi sorrisero per ringraziarmi.
«Ti auguro tanto di non averne mai bisogno, piccola mia, ma ricorda che qualora succedesse qualche cosa di brutto lui ti proteggerà sempre, si prenderà cura di te!».
«Okay!».
L’accarezzai, li salutai e me ne andai.
3
Il giorno in cui chiusi la porta alle mie spalle mi colse impreparata. Ero una dilettante nella vita, un cumulo animato di carne ed ossa in fuga e alla ricerca di qualche cosa di non ben definito. Mancavo di dignità. Avanzando a passo spedito mi obbligai a non voltarmi per nessuna ragione al mondo, pensando che finalmente tutto sarebbe finito e che da quel momento in poi la mia vita sarebbe cambiata e sarebbe nata una nuova Melanie. Dieci passi, cento passi, poi duecento. Mi voltai, come presa alle spalle a tradimento da una mano invisibile. Riguardai la casa. La lanterna sulla facciata dondolava sospinta dal vento, il suo movimento mi ipnotizzava. Tornai in me e piansi. Mi arresi, mi rivoltai e finalmente me ne andai via. Il pianto aveva cancellato la paura, forse ciò che si diceva non era poi così vero. O forse lo era.
Il mio vagone di seconda classe non era affollato. C’erano solo una ragazza ed un uomo anziano a farmi compagnia. L’uomo leggeva indisturbato la sua copia del “Daily Telegraph” mentre la ragazza alternava il suo sguardo tra il finestrino e la mia faccia cercando di capire quale delle due immagini riuscisse a stupirla di più, quale fosse il panorama migliore da osservare per ingannare il tempo, quello più divertente. Masticava con insistenza una gomma con il viso immerso nel colletto rialzato della sua camicetta bianca a quadri rossi. Portava un paio di jeans piuttosto stretti per quell’epoca. Io li trovai piuttosto scomodi ad un primo sguardo, una delle poche volte che la guardai. Ma notai che su di lei stavano bene, valorizzavano il suo corpo quasi perfetto. Stavo lasciando una vita che non riconoscevo più, miglio dopo miglio stavo cercando di dimenticare il posto da dove venivo. E ci stavo riuscendo con non poca fatica, o almeno così credevo. Non avrei voluto che qualcuno mai visto prima mi facesse ripiombare nel mio passato con quella stupida domanda “Tu da dove vieni?” e la cui risposta di certo non era d’interesse per alcuno. Non la guardai più. Chiusi gli occhi e mi immersi nuovamente nella fitta nebbia dei miei pensieri, persa in un susseguirsi di immagini che disegnavano involontarie espressioni sul mio viso. Questo la incuriosì molto e la convinse a scegliere il mio viso come spettacolo da guardare, perché tutto sommato ciò che scorreva fuori dal finestrino era solo un paesaggio statico che lei aveva già visto più e più volte durante la sua vita. Me lo confidò qualche mese dopo quel nostro primo incontro in quel vagone, quando ormai eravamo diventate buone amiche. Entrò il controllore per chiederci di mostrargli i biglietti e fui costretta ad aprire gli occhi. Io la guardai, lei mi guardò. Iniziammo a parlare ma in modo diverso, senza un saluto, una domanda fuori posto, nulla del genere. Lei faceva delle assunzioni, come se davvero mi conoscesse da sempre. Mentre parlava continuava a masticare la gomma, come se niente fosse. Io non ero mai riuscita a fare due cose insieme senza rischiare di commettere errori, mentre per lei sembrava una cosa del tutto normale.
«Certo che tu sei una ragazza strana».
«Cosa le fa pensare che io sia strana?».
Si fermò un attimo per riflettere, poi riprese il discorso.
«Te ne stai lì tutta sola e zitta a pensare a cosa non si sa. In fine dei conti siamo su un treno».
«E quindi? Per il semplice fatto di trovarci su un treno lei ed io dovremmo metterci a parlare?».
Lei sembrò accusare il colpo e abbandonò per un attimo il gioco, senza però smettere di guardarmi. Non si era arresa, mi stava solo studiando, cercava di assestare la sua prossima mossa d’attacco. Staccai lo sguardo dal suo e finsi di guardare fuori dal finestrino, senza però osservare un punto preciso. Uno qualunque, scelto così a caso, sarebbe stato comunque perfetto, purché non fossero i suoi occhi.
«Che cosa vedi?».
«Mi scusi?».
«Ho chiesto che cosa vedi fuori dal finestrino».
«Sto guardando la campagna».
«Stai guardando la campagna, va bene. Ma che cosa vedi?».
«Se sto guardando la campagna, vedo la campagna!».
«Logico».
«Mi sembra persino stupido chiederlo, non le pare?».
«Ah, io non saprei. Il più delle volte ciò che si vede non è proprio quello che si sta guardando. O almeno per me è così».
Questa volta era andata lei a segno, aveva assestato un colpo che mi aveva fatto maledettamente male. La guardai, sconfitta e senza alcuna voglia di ribattere. Forse la mia fuga non sarebbe servita a nulla, capii СКАЧАТЬ