Название: Gli albori della vita Italiana
Автор: Various
Издательство: Public Domain
Жанр: История
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Dopo aver combattuto contro la vicina Lucca, Pisa combattè pel possesso della Sardegna contro Genova.
Difficili i primi passi di Genova, umili le origini: trafficare coi porti vicini, combattere i predatori saraceni e normanni. A poco a poco, a nuovi commerci nuovi lidi. Fin dal 958, essa gode della sua libertà, non funestata mai da capricci superbi di conti, di marchesi, di duchi, ai quali tutti il trattato di Berengario II e di Adalberto vietano di porre piede nella città. Prosperano le compagnie cittadine belligere e trafficanti. Da prima, insieme coi Pisani, Genova strappa ai Mori la Sardegna, ma ben presto le armi consociate diventano fratricide, e la guerra fra le due città dura sessant'anni.
Ad accrescere la ricchezza e le rivalità delle città marinare d'Italia giungono le crociate.
È opinione comune che tra le prodezze irreflessive, ma generose delle crociate, Pisa, Genova e, in ispecie, Venezia, non abbiano cercato che l'interesse ed abbiano fatto servire una grande idealità religiosa ad ottener dovizie materiali, ad aprir nuovi scali al commercio. Certo, fra quei tre popoli non apparve l'ascetismo feroce, nè il principio di autorità dogmatica, soccorritore del feudale e del dinastico, ma la religione fu sentita e intesa fra quelle genti, nè fu ipocrito pretesto di mercantili speculazioni. Vi sono popoli credenti e pratici a un tempo, come l'inglese e il veneziano. Sono sinceri in tutti e due gli atteggiamenti della loro esistenza, e perchè sinceri colgono i frutti di ambedue queste attitudini dello spirito. Il missionario inglese, quando con la Bibbia, tradotta in tutti gli idiomi asiani e africani, s'avanza in regioni ignote a spargere la santa semente del verbo di Dio, è profondamente sincero e devoto al suo ideale fino a rifiutare per esso la vita. Ma, superate le difficoltà, egli è egualmente convinto di servire alla sua patria mutando l'evangelista in negoziante, segnando la via ai cotonieri del Lancashire e qualche volta, e Dio gli perdonerà, ai fabbricatori di brandy del suo paese. Così Venezia: devota a Cristo, si sentiva bensì accesa di zelo religioso per la liberazione del Santo Sepolcro, e, all'infuori di ogni pensiero mondano, palpitava nella isoletta di Rialto, come il grande signore di Francia e di Lamagna nel suo maniero. Ma a canto all'imagine di Gesù crocifisso, i signori dei mari intuivano tutti i nuovi orizzonti di traffichi e di colonie e vi si fisavano con amoroso zelo. E in quel connubio di palpiti cristiani e di mercantili disegni, si accordavano la religione con l'industria, l'ascetico col mercadante, e l'imagine di Gesù liberato si adornava di tutte le opulenze della nuova vita economica. Così erano, o signori, anche i vostri antenati. Credenti, mercadanti e diplomatici a un tempo, mistici e positivisti, i lucri guadagnati negli arditi commerci consegnavano alla divinità e dai banchi uscivano gli artefici, che erigevano i vostri insigni monumenti. Così la nostra storia prova come sia vano, sterile e oseri dire irreligioso, un ascetismo monastico orientale, che si consuma ne' suoi malaticci idealismi, e come, alla sua volta, conduca a ruina una sete di lucro, che non si temperi, non si legittimi e direi quasi non si purifichi in queste aure salubri della idealità. Quanto diversi, o signori, dai coloni italiani del nostro tempo, i quali, senza ideali religiosi e senza disegni di utili operosità, si avventurano in luoghi, che nè i nostri antichi apostoli, nè i concittadini di Marco Polo e di Colombo avrebbero eletto a sede di colonie. Il che dimostra appunto, perchè ci fa difetto il modo di scegliere con infallibile rettitudine di giudizî, quanto ci manchi e quanto siamo lontani dalla sana idealità e dall'avveduta operosità dei nostri maggiori. Oh! non disputavano a Venezia sulla fecondità e sull'avvenire delle grandi colonie che occupavano, come non disputavano a Genova su quelle del mar di Marmara e del mar Nero. Le opime spoglie che ne traevano non consentivano i dubbi dolorosi, che s'odono nei nostri parlamenti.
Ma, siamo giusti, ciò che ai nostri maggiori mancava era il senso della concordia. I vicini interessi e le comuni imprese fecero scoppiare più fieri i dissidî fra Pisa, Genova e Venezia.
Intanto da una straordinaria impresa era agitata quest'ultima città. Quando Innocenzo III tentò ravvivare la santa guerra, i crociati francesi si rivolsero, per ottenere il navilio, a Venezia. Era allora doge Enrico Dandolo, vecchio ottuagenario, a cui gli anni e la debole vista accresceano l'ardimento e l'energia; indole tenace e impetuosa e nello stesso tempo astuta e dissimulatrice. Egli accettò le proposte, ma prima di accingersi all'impresa, volle avere l'approvazione del popolo, ch'ei fe' radunare nella chiesa di San Marco, la plus belle que soit, come la chiama Goffredo di Villehardouin, uno di quei crociati. I cavalieri di Francia dalle armi corrusche, i veneti patrizî dalle vesti gravi e maestose dell'Oriente, il popolo dalle fogge variopinte, si adunarono sotto le cupole dorate dai scintillanti mosaici, fra quella strana architettura di colonne superbe sovrapposte a colonne, tra le effigie mirabili e i marmi preziosi.
Il vecchio doge, in luogo eminente, indossava una tunica purpurea, un manto affibbiato con borchia d'oro e un corto bavero d'ermellino. Parlò Goffredo di Villeardouin pregando Venezia ad accompagnare i baroni francesi a vendicare l'onta di Gesù. La voce di quel guerriero entusiasta si alzava trionfante come un inno, ricercava le fibre più intime di quei cuori, finiva addolcendosi in una prece, nella quale passava il puro alito della fede. Allora da più di diecimila petti un grido s'alzò sotto le vôlte dorate della chiesa e il doge e i legati francesi giurarono sulle loro spade. Ma quando furono pronte le navi, non trovando i baroni di Francia, tutta la somma stabilita pel passaggio, Enrico Dandolo propose loro, in luogo di soddisfare intero il debito, di riconquistare insieme coi Veneziani la città di Zara ribellata. La proposta fu accettata, e, dopo poco tempo, Zara cadeva. Durante l'assedio si presentava ai crociati Isacco, imperatore di Costantinopoli, spodestato da un usurpatore, chiedendo aiuto per ricuperare il trono. Papa Innocenzo, che avea con ogni possa cercato d'impedire l'impresa di Zara, scagliando perfino i fulmini apostolici, ora secretamente favoriva la spedizione di Costantinopoli, vagheggiando l'unione della Chiesa anche in Grecia. Avea finito col trovare gli opportuni ripieghi sacerdotali, concludendo con un pensiero degno della politica odierna: necessitas, maxime cum insistitur opere necessario, multum et in multis excusat. E poi troppo recenti erano le greche perfidie contro la repubblica di San Marco, perchè ogni veneziano non sentisse in cuore il desiderio della vendetta. Non erano ancor vive le generazioni che aveano veduto il fedifrago imperatore gettar un giorno in carcere tutti i Veneziani, che avea potuto prendere ne' suoi stati? E il valore dei Veneti, condotti da Vitale Michiel non era stato reso impotente dalle inique arti dei Greci? E non si era tentato di perdere coll'inganno più infame lo stesso Enrico Dandolo, che in Costantinopoli avea tentato di salvare l'onore della patria? Non erano le leggi e i trattati arbitrariamente violati dalla corte bizantina? D'altra parte, e i documenti attestano ciò, il Pontefice e il Doge si accordavano nel pensiero che la sommessione di Costantinopoli potesse agevolare il conquisto di Terrasanta. Fu stabilita l'impresa e compiuta; ma poco stante, in seguito a nuove rivoluzioni e intrighi di palazzo, i crociati vennero a rottura coi Greci, e Costantinopoli fu presa per la seconda volta. Quando il gonfalone di San Marco sventolò sulle mura di Costantinopoli, i Greci fuggirono spaventati, fra il confuso rumor d'armi e di grida, unito al frastuono orrendo di urla, di gemiti, di pianti. E il Papa, plaudendo agli eventi fortunati, scriveva ai vescovi, abati e duchi dell'esercito: sane a domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris. E dimenticò Terrasanta.
«Dalla creazione in poi non v'ebbe più larga preda» scrisse il Villehardouin. Immense ricchezze e preziosi oggetti d'arte furono salvati nella generale rapina, e trasportati in patria dai Veneziani: quadri, statue, gemme con cui arricchirono la pala d'oro e il tesoro di San Marco, e i quattro celebri cavalli di rame dorato che, trasportati da Chio, dall'imperatore Teodosio II, a ornare l'ippodromo di Bisanzio furono posti sul pronao della basilica veneziana.
La forza di Venezia imperava ormai sull'Oriente. All'interno potea dirsi secura, coi nuovi ordinamenti politici, per mezzo dei quali si svolgeva la sua attività, colla legge che impera e custodisce, colla concordia che fortifica e rafferma. Sottratta già da lungo tempo al popolo la dogale elezione, chiuso a chi non fosse nobile, il governo, s'era consolidato СКАЧАТЬ