Название: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3
Автор: Giovanni Boccaccio
Издательство: Public Domain
Жанр: Зарубежная классика
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La seconda volta ne furon cacciati quando i fiorentini furono sconfitti a Monte Aperti da’ sanesi, per l’aiuto che’ sanesi ebbero dal re Manfredi per opera di messer Farinata, il quale avea mandata la piccola masnada avuta da Manfredi, con la sua insegna, in parte che tutti erano stati tagliati a pezzi, e la ’nsegna, ecc. La qual novella come fu in Firenze, sentendo i guelfi che i ghibellini con le masnade del re Manfredi ne venieno verso Firenze, senza aspettare alcuna forza, con tutte le famiglie loro, a dí 13 di settembre 1260, se n’uscirono; e poi, avendo il re Carlo primo avuta vittoria, e ucciso il re Manfredi, tutti vi ritornarono, e i ghibellini se n’uscirono. De’ quali mai poi per sua virtú o operazione non ve ne ritornò alcuno; per la qual cosa dice l’autore: – «S’e’ fûr cacciati», i miei antichi da voi, «e’ tornar d’ogni parte», – dove ch’e’ si fossero, «Risposi lui, – e l’una e l’altra fiata», come di sopra è stato mostrato: «Ma’ vostri», cioè gli Uberti, li quali con gli altri ghibellini furon cacciati quando la seconda volta vi ritornarono i guelfi, «non appreser ben quell’arte», – cioè del ritornare: percioché, come detto è, mai non ci ritornarono, né, per quel che appaia, sono per ritornarci. «Allor surse». Qui comincia la quarta particella di questa terza parte principale, nella quale l’autore mostra come un’altra anima surgesse e dimandasselo d’alcuna cosa, ed egli le rispondesse; e però dice: «Allor», mentre io rispondea, come detto è, a messer Farinata, «surse», si levò, «alla vista scoperchiata», cioè infino a quella parte della sepoltura non coperchiata, della qual si poteva veder di fuori; «Un’ombra, lungo questa, insino al mento»: non si levò diritta in piè, come s’era levato messer Farinata, ma tanto che dal mento in su si vedea; «Credo che s’era inginocchion levata»; e cosi dovea essere, poiché piú non se ne vedea. «D’intorno mi guardò, come talento», cioè volontá, «Avesse di veder s’altri era meco; Ma, poi che’l sospicciar fu tutto spento», cioè poi che vide che io era solo. «Piangendo disse: – Se per questo cieco Carcere», dello ’nferno, il quale meritamente chiama «carcere», percioché alcuno che v’entri mai uscir non ne puote; e chiamal «cieco», non perché cieco sia, percioché il luogo non ha attitudine niuna di poter vedere né d’esser cieco, ma percioché ha a far cieco chi v’entra, in quanto egli è tenebroso, e ne’ luoghi tenebrosi non si può veder lume; «vai per altezza d’ingegno», avendo per quella saputo trovar via e modo, per lo quale, senza ricevere offesa o doverci rimanere, tu ci vai; «Mio figlio ov’è? e perché non è el teco?» – quasi voglia dire: conciosiacosaché egli sia cosí di maraviglioso ingegno dotato, come siè tu. «Ed io a lui: – Da me stesso non vegno»; cioè per l’altezza d’ingegno che in me sia; «Colui che attende lá», e mostrò Virgilio, «per qui mi mena», cioè per questo luogo, «Forse cui Guido vostro», figliuolo, «ebbe a disdegno». —
«Le sue parole» (cioè: se tu vai per altezza d’ingegno, come non è mio figlio teco?) «e ’l modo della pena», cioè vederlo dannato tra gli epicurei, «M’avevan di costui», che mi parlava, «giá detto il nome», cioè m’avevan fatto conoscere chi egli era: «Però fu la risposta», mia a lui, «cosi piena», senza mostrare in alcuna cosa di non intenderlo.
È qui adunque da sapere che costui, il quale qui parla con l’autore, fu un cavalier fiorentino chiamato messer Cavalcante de’ Cavalcanti, leggiadro e ricco cavaliere, e seguí l’opinion d’Epicuro in non credere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse, e che il nostro sommo bene fosse ne’ diletti carnali; e per questo, sí come eretico, è dannato. E fu questo cavaliere padre di Guido Cavalcanti, uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun nostro cittadino; e, oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore, sí come esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon dicitore in rima: ma, percioché la filosofia gli pareva, sí come ella è, da molto piú che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. E percioché messer Cavalcante conosceva lo ’ngegno del figliuolo, e la singulare usanza la quale con l’autore avea, riconosciuto prestamente l’autore, senza alcuna premessione d’altre parole, nella prima giunta gli fece la domanda che di sopra si disse.
Poi séguita l’autore e dice che, attristatosi messer Cavalcante per la risposta udita, «Di subito drizzato, gridò: – Come Dicesti, ’egli ebbe’?», il che si suol dire delle persone passate di questa vita, e però segue: «non viv’egli ancora? Non fiere gli occhi suoi il dolce lome?» – del sole; percioché gli occhi de’ morti non sono quanto i corporali feriti, cioè illuminati da alcun lume.
«Quando s’accorse», aspettando, «d’alcuna dimora Ch’io faceva dinanzi alla risposta, cioè non rispondea cosí subitamente, «Supin ricadde»; segno di pena è il cader supino, la quale assai bene si può comprendere essergli venuta estimando che ’l figliuolo fosse morto, poiché l’autore non gli rispondea cosí tosto; percioché gli uomini sogliono soprastare alla risposta, quando la conoscono dovere esser tale che ella non debba piacere a colui che ha fatta la domanda: «e piú non parve fuora». Puossi nelle predette cose comprendere quanto sia l’amor de’ padri ne’ figliuoli, quando veggiamo che in tanta afflizione, in quanta i dannati sono, essi non gli dimenticano, e accumulano la pena loro quando di loro odono o suspicano alcuna cosa avversa. «Ma quell’altro magnanimo». Qui comincia la quinta particella della terza del presente canto, nella quale, poi che l’autore ha mostrato come quello spirito, il quale s’era in ginocchie levato, era nella sepoltura ricaduto, ne dice come messer Farinata, continuando le sue parole, gli annunzia alcuna cosa di sua vita futura. Dice adunque: «Ma quell’altro magnanimo», cioè messer Farinata, «a cui posta», cioè a cui richiesta, «Restato m’era», in quel luogo, «non mutò aspetto», per cosa che detta fosse, «Né mosse collo», volgendosi in giú alle parole di messer Cavalcante, «né piegò sua costa», cioè suo lato.
– «E se, – continuando al primo detto», cioè a quello che di sopra avea detto, d’avere due volte cacciati i passati dell’autore; – «Egli han quell’arte», – del tornare donde cacciati sono, «disse, – male appresa», in quanto non tornano in Firenze, «Ciò mi tormenta piú che questo letto», cioè che questo sepolcro acceso, nel quale io giaccio.
«Ma non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna che qui regge».
A dichiarazion di queste parole è da sapere, come altra volta è stato detto, Proserpina esser moglie di Plutone e reina d’inferno; e questa Proserpina talvolta è da intendere per una cosa, e tal per un’altra. E tra l’altre cose, per le quali i poeti la prendono, alcuna volta è per la luna, la quale però si dice reggere in inferno, percioché la sua potenza è grandissima appo questi corpi inferiori, i quali, per rispetto delle cose superiori, si posson dire essere in inferno; e però, intendendosi per la luna, è da sapere la luna di sua natura non avere alcuna luce, sí come noi possiamo vedere negli ecclissi lunari, ne’ quali ella non è veduta dal sole: per la interposizione del corpo della terra tra ’l sole e lei, rimane un corpo rosso senza alcuna luce. E cosí, facendo il suo corso, quanto piú dal sol si dilunga, piú veggiamo del corpo suo lucido, insino a tanto che perviene alla quintadecima, e quivi allora veggiamo tutto il corpo suo luminoso e bello; e cosí si mostra a noi essere «raccesa», cioè ralluminata la faccia sua: poi dal luogo, dove tutta la veggiamo, partendosi, e tornando verso il sole, continuamente par diminuisca il lume suo, in quanto a’ nostri occhi apparisce meno di quello che dal sole è veduto; e cosí se ne va continuamente diminuendo, infino a tanto che entra sotto i raggi del СКАЧАТЬ