Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3. Giovanni Boccaccio
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Читать онлайн книгу Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - Giovanni Boccaccio страница 12

СКАЧАТЬ nella sepoltura nella qual giacea; «dalla cintola in su», cioè da quella parte della persona sopra la quale l’uom si cigne, [La quale non era tanta parte quanta è quella che oggi si vedrebbe; percioché gli uomini soleano andar cinti sopra i lombi, oggi vanno cinti sopra le natiche; e soleva essere la cintura istrumento opportuno a tenere ristretta la larghezza de’ vestimenti, ove ne’ giovani d’oggi è ornamento superfluo d’assai vil parte del corpo loro, percioché, in luogo di cinture, essi fanno ricchissime corone, e, come per addietro delle corone si solea ornar la fronte, cosí delle presenti si coronan le natiche.] «Tutto il vedrai». – Per le quali parole di Virgilio, l’autore, prestamente verso quel luogo rivoltosi, cominciò a riguardare questo messer Farinata.

      E però segue: «Io avea il mio viso», cioè la mia virtú visiva, «nel suo», viso, cioè negli occhi suoi, «fitto», fiso riguardando: «Ed el», cioè messer Farinata, il quale io riguardava, «s’ergea», cioè surgea, levandosi da giacere; ed ergevasi «col petto e con la fronte», li quali l’uomo levandosi mette innanzi; il che messer Farinata faceva, «Come avesse l’inferno in gran dispitto», cioè a vile e per niente: e in questo vuole l’autore mostrare messer Farinata essere stato uomo di grande animo, né averlo potuto, vivendo, piegare né rompere alcuna fatica, pericolo o avversitá.

      «E l’animose man»: diciamo allora le mani essere «animose», quando elle son pronte e destre all’oficio il quale esse vogliono o debbon fare; «del duca e pronte Mi pinser tra le sepolture a lui». Non è da credere che violentemente il sospignessero, ma fecero un atto, il quale colui, che bene intende, prende per sospignere, cioè per essere animato da colui che fa sembiante di sospignere ad andare; «Dicendo», in quell’atto: – «Le parole tue sien cónte», – cioè composte e ordinate a rispondere; quasi voglia dire: tu non vai a parlare ad ignorante.

      «Com’io al piè». Qui comincia la terza particula di questa terza parte principale, nella quale dimostra l’autore come con messer Farinata parlasse: dove, avanti che piú oltre si proceda, è da mostrare chi fosse messer Farinata. Fu adunque messer Farinata cittadino di Firenze, d’una nobile famiglia chiamata gli Uberti, cavaliere, secondo il temporal valore, da molto, e non solamente fu capo e maggiore della famiglia degli Uberti, ma esso fu ancora capo di parte ghibellina in Firenze, e quasi in tutta Toscana, sí per lo suo valore, e sí per lo stato, il quale ebbe appresso l’imperadore Federigo secondo, il quale quella parte manteneva in Toscana, e dimorava allora nel Regno; e sí ancora per la grazia, la quale, morto Federigo, ebbe del re Manfredi, suo figliuolo, con l’aiuto e col favore de’ quali teneva molto oppressi quegli dell’altra parte, cioè i guelfi. E, secondo che molti tennero, esso fu dell’opinione d’Epicuro, cioè che l’anima morisse col corpo, e per questo tenne che la beatitudine degli uomini fosse tutta ne’ diletti temporali; [ma non seguí questa parte nella forma che fece Epicuro, cioè di digiunare lungamente, per avere poi piacere di mangiare del pan secco, ma fu disideroso di buone e di dilicate vivande, e quelle, eziandio senza aspettar la fame, usò.] E per questo peccato è dannato come eretico in questo luogo.

      Dice adunque l’autore: «Com’io al piè della sua tomba fui»; appare qui che quelle arche non erano in terra, ma levate in alto; «Guardommi un poco», forse per vedere se il conoscesse, «e poi quasi sdegnoso»; è questo atto d’uomini arroganti, li quali quasi, ogni altra persona che sé avendo in fastidio, con isdegno riguardano altrui; «Mi domandò: – Chi fûr li maggior tui?» – cioè gli antichi tuoi: e questo per ricordarsi se cognosciuti gli avesse, posciaché lui non ricognoscea.

      «Io, ch’era d’ubbidir disideroso, Non gliel celai, ma tutto gliele apersi», dicendo che gli antichi suoi erano stati gli Alighieri, onorevoli cittadini di Firenze, e antica famiglia, sí come piú distesamente si narrerá nel canto decimoquinto del Paradiso; «Ond’ei levò le ciglia un poco in suso». Sogliono fare questo atto gli uomini quando odono alcuna cosa, la quale non si conformi bene col piacer loro, quasi, in quello levare il viso in su, di ciò che odono si dolgano con Domeneddio o si dolgano di Domeneddio.

      «Poi disse: – Fieramente fûro avversi», cioè contrari e nemici, percioché guelfi erano, «A me», in singularitá, «e a’ miei primi», cioè a’ miei passati, «e a mia parte».

      [Era, come di sopra è detto, la parte di costui quella che ancora si chiama «parte ghibellina», della qual parte, e della opposita, e della loro origine, par di necessitá di parlare alquanto diffusamente, accioché poi, dovunque se ne tratterá in questo libro appresso, senza avere a replicare, s’intenda. Sono adunque in Italia, giá è lungo tempo, perseverate, con grandissimo danno e disfacimento di molte famiglie e cittá e castella, due parti, delle quali l’una è chiamata parte guelfa e l’altra ghibellina, e hannosi sí fervente odio portato l’una all’altra, che né il gittar le proprie sustanze, né il perder gli stati, né il metter se medesimi a pericolo e a morte, pare che curati si sieno. E questi due nomi, secondo che recitava il venerabile uomo messer Luigi Gianfigliazzi, il quale affermava averlo avuto da Carlo quarto imperadore, vennero della Magna, lá dove dice nacquero in questa forma. Fu in Italia, giá son passati dugento anni, una nobile donna e di grande animo, e abbondantissima di baronie e delle mondane ricchezze, chiamata la contessa Matelda, delle cui laudevoli operazioni distesamente si dirà nel canto vigesimottavo del Purgatorio; la quale, accioché alcun certo erede di lei rimanesse, cercò di volersi maritare, e, non trovando in Italia alcuno che assai le paresse conveniente a sé, mandò nella Magna; e qui trovatosi un barone, il cui nome fu il duca Gulfo, ovvero Guelfo, e costui parendole e per nobilitá di sangue e per grandigia convenirlesi, fece con lui trattare il matrimonio. La qual cosa sentendo un parente di questo Gulfo, il cui nome fu Ghibellino, e udendo la maravigliosa dota che a costui dovea da questa donna esser data, divenne invidioso della sua buona fortuna, e occultamente cominciò a cercar vie per le quali questo potesse sturbare; e ultimamente s’avvenne ad alcuna persona ammaestrata in ciò, il quale adoperò, con sue malie e con sue malvagie operazioni, cose, per le quali questo Gulfo fu del tutto privato del potere con alcuna femina giacere. Per lo qual malificio, essendo dato opera alle sponsalizie, e Gulfo venuto in Italia, e cercato piú volte di dare opera al consumamento del matrimonio, e non avendo mai potuto; tenendosi la donna schernita da lui, con poco onor di lui il mandò via, né poi volle marito giammai. Gulfo, tornatosi a casa, o che Ghibellino sospicasse non questo gli venisse che fatto avea, agli orecchi, o per altro odio che gli portasse, il fece avvelenare, e cosí morí. Ma questa seconda malvagitá di Ghibellino, conosciuta, manifestò ancor la prima: per le quali cose assai nobili uomini della Magna si levarono a dover questa iniquitá vendicare; e cosí molti ne furono in aiuto e in sussidio di Ghibellino; e tanto procedette la cosa avanti, che quasi tutta Alamagna fu divisa, e sotto questi due nomi, Guelfo e Ghibellino, guerreggiavano. Né stette questa maladizione contenta a’ termini della Magna, ma trapassò la fama d’essa in Italia; la quale udita dalla contessa Matelda, e conoscendo la innocenzia di Gulfo e la iniquitá di Ghibellino, in aiuto di quegli che vendicar voleano la morte di Gulfo mandò grandissimo sussidio, nel quale furono molti nobili uomini italiani. E, percioché per avventura in Italia erano similmente delle divisioni, quantunque senza alcun notabile nome fossero, assai di quegl’italiani, che d’altro animo erano che coloro li quali erano andati a vendicar Guelfo, andarono dalla parte avversa, mossi da questa ragione, che, se avvenisse agli avversari loro d’aver bisogno d’aiuto contra di loro, pareva loro essi, con l’avere aiutata la parte di Gulfo, aver dove ricorrere, e perciò, accioché a loro similmente non fallasse ricorso, se bisognasse, andarono nell’aiuto di Ghibellino: e poi l’una parte e l’altra tornatisene di qua, ne recarono questi sopranomi; cioè quegli, che in aiuto della parte di Gulfo erano andati, si chiamaron «guelfi», e gli altri «ghibellini». Ed essendo questa pestilenza per tutta Italia distesa, divenne nella nostra cittá potentissima: e per la uccisione stata fatta d’un nobile cavaliere, chiamato messer Bondelmonte, mise maravigliosamente le corna fuori, e quegli che co’ parenti del cavaliere ucciso teneano, si chiamaron «guelfi», de’ quali furon capo i Bondelmonti; e la parte degli ucciditori si chiamò «ghibellina», e fúronne capo gli Uberti. E questa è quella parte alla quale messer Farinata dice che gli antichi dell’autore furono fieramente avversi, sí come uomini li quali erano guelfi, e con quella parte teneano contro a’ ghibellini.]

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