La riconquista di Monpracem. Emilio Salgari
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Название: La riconquista di Monpracem

Автор: Emilio Salgari

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ I dodici battellieri si accompagnavano in cadenza col remo una selvaggia canzone.

      Giunse in un lampo sotto la scala, ormeggiandosi, ed il segretario salì a bordo, dicendo:

      – Milord, il Sultano vi aspetta all’aloun-aloun ed è molto impaziente di vedervi.

      – Veramente avrebbe potuto offrirmi un ricevimento ufficiale nel suo palazzo – rispose Yanez freddamente.

      – Ormai lo spettacolo non si poteva rimandare, senza provocare, da parte della popolazione, dei disordini.

      – Partiamo. —

      Scese nella scialuppa, salutato dai battellieri da un urlo selvaggio identico a quello che usavano cento od anche cinquant’anni prima, quando si scagliavano all’abbordaggio e si sedette a fianco del segretario, il quale teneva il timone.

      Sulla gettata una folla considerevole, composta di burghisi, di macassaresi, bornesi, malesi, dayachi, cinesi e negritos, si era radunata attorno ad un carro tutto dipinto in verde, con una cupoletta dorata sostenuta da sei colonnette e trascinato da due zebù, specie di buoi di piccola taglia, con molta gobba e che sono buonissimi corridori.

      La curiosità di vedere il nuovo ambasciatore aveva trattenuto ancora sulle gettate molte persone, quantunque lo spettacolo dell’aloun-aloun, tanto caro a quelle popolazioni di istinti sanguinari, fosse imminente.

      Yanez sbarcò a terra preceduto dal segretario, degnandosi appena di salutare i presenti collo stik di cui si era munito e salì tranquillamente sul carro, sedendosi su un larghissimo cuscino di seta cremisi con fiocchi d’oro.

      Il cocchiere, un giovane malese, torse subito ferocemente la coda ai due animali, i quali partirono a corsa sfrenata, con grande pericolo di rompere le gambe ai viandanti, i quali erano costretti a gettarsi, alla lettera, dentro i negozi o dentro le case, senza osare di muovere alcuna protesta, poiché sapevano bene che il Sultano sarebbe stato inesorabile e delle teste ne avrebbe fatte tagliare senza nemmeno contarle.

      Dopo dieci minuti di corsa rapidissima, attraverso vie sfondate e polverose, fiancheggiate per lo più da casolari malesi e dayachi, il carro giungeva sul luogo ove stava per svolgersi il grande spettacolo.

      In una vasta prateria si ergeva una specie di anfiteatro, ma formato esclusivamente di canne bambù, le quali erano state intrecciate in forma di gabbia per impedire che le tigri si portassero via gli spettatori.

      Migliaia e migliaia di persone, prementi, impazienti, avevano occupato tutte le gradinate, facendo un chiasso infernale.

      In una piattaforma, abbellita da tappeti e da festoni di seta verde, insegna del potere, stava il Sultano del Borneo S. A. Selim-Bargasci-Amparlang.

      Il signore del Borneo, come tutti i sultanelli delle isole Indomalesi, non era già un gigante e non aveva affatto un aspetto guerresco. Era un cosettino smilzo, color del pane bigio, cogli occhietti brillantissimi ed un po’ di barba al mento che cominciava già a brizzolarsi.

      Indossava una lunga tunica di seta verde ricamata in oro, e portava sul capo un turbante di dimensioni monumentali.

      Poteva tenersi per altro ben sicuro, poiché dietro di lui, altre ad un gran numero di malesi e dayachi, stavano ritti cento rajaputi indiani, sempre pronti ad un suo cenno a portare lo spavento nella capitale.

      Yanez salì una scala coperta da un ricco tappeto persiano, giunto laggiù chi sa in seguito a quali vicende, e si presentò al Sultano, toccandosi appena con un dito la tesa dell’elmo, come si conveniva al rappresentante di una nazione così potente, da mangiarsi tutto il sultanato in ventiquattro ore.

      – Siate il benvenuto alla mia corte! – gli disse il Sultano. – Il vostro arrivo mi era già stato annunciato.

      Dubitavo che vi fosse toccato qualche spiacevole accidente. Sapete bene che i mari nostri, per quanto io faccia, non sono mai sicuri.

      – Sono giunto col mio yacht, Altezza, – rispose Yanez – e la mia nave porta sempre dei buoni pezzi di cannone capaci di contrabbattere vantaggiosamente tutte le spingarde, i lilà ed i mirim dei pirati.

      – Sedetevi presso di me, milord, non si aspettava che voi per cominciare lo spettacolo.

      Se siete stato in India, ne avete veduti altri simili.

      – E molti, Altezza.

      – Ma io vi offrirò qualche cosa di più interessante: una battaglia di lanceri fra le tigri.

      Abbiamo fatto molte grosse battute tutta la settimana scorsa e siamo ben provvisti di animali.

      – Questi spettacoli sono sempre assai emozionanti e si vedono volentieri.

      – Volete che dia il segnale? Tutto è pronto. —

      Il Sultano alzò un braccio.

      Tosto si udirono tre squilli sonori di tromba, i quali ottennero dalla parte degli spettatori un profondissimo silenzio.

      Da un capannone costruito all’estremità del grandioso recinto si slanciò sull’arena un magnifico toro tutto nero, di forme vigorose, colla fronte ampia e le corna incurvate in avanti.

      Doveva essere una bestia selvaggia, presa da poco nel fondo di qualche fossa, poiché aveva ancora gli occhi iniettati di sangue per la lunga prigionìa.

      Appena fatta una corsa furiosa di quindici o venti passi, si arrestò di colpo fiutando l’aria, sferzandosi i fianchi colla coda e mandando dei sordi ed impressionanti muggiti.

      Il povero animale sentiva certamente il pericolo.

      Altri tre squilli echeggiarono e da un’altra capanna situata quasi sotto il palco del Sultano, si slanciò fuori una tigre, annunciandosi con un a-ou-ug che fece sussultare il toro.

      Non era una di quelle magnifiche tigri reali che si trovano solamente nel Bengala.

      Quelle che popolano le isole del mar della Sonda sono più basse di zampe, più tozze; ma non sono meno ardite delle altre.

      La belva, che doveva aver capito di che cosa si trattava, invece di muovere direttamente contro l’avversario che l’aspettava ben piantato sulle zampe e colla testa bassa, si accovacciò al suolo lanciando un secondo a-ou-ug non meno impressionante del primo.

      Urla feroci partivano dai dieci o quindicimila spettatori.

      – Paurosa!

      – Il toro ti guata!

      – Saltagli addosso e provati a mangiarlo, se sei capace. —

      La tigre riceveva filosoficamente le più atroci ingiurie e si guardava bene dall’assalire il poderoso avversario, il quale invece cominciava a dare segni d’impazienza.

      – Attento, milord – disse il Sultano cacciandosi fra i denti, neri come i chiodi di garofano, un miscuglio d’areca, di betel e di calce viva. – Lo spettacolo diventerà interessante.

      – Mi pare per altro che la tigre abbia poca premura di provare le corna del toro – rispose Yanez.

      – Al momento opportuno assalirà, ve lo dico io. Guardate! Guardate! —

      Non era la tigre che muoveva all’attacco bensì il toro, il quale pareva che fosse impaziente di finirla.

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