La città del re lebbroso. Emilio Salgari
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Название: La città del re lebbroso

Автор: Emilio Salgari

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ da quell’accoglienza, fece cenno al dottore di attenderlo ed entrò nel vasto cortile d’onore, alla cui estremità s’apriva il salone delle udienze.

      Quando salì la gradinata, vide Phra-Bard passeggiare con una certa agitazione fra le splendide colonne che reggevano il soffitto di mosaico d’oro, ancora vestito di seta grigia, colla corta scimitarra appesa alla fascia.

      Il viso del monarca non si era ancora rasserenato, anzi profonde rughe solcavano la sua fronte ed un brutto lampo illuminava i suoi occhi nerissimi e leggermente obliqui.

      Vedendo Lakon-tay si arrestò di colpo, fissando sul generale uno sguardo acuto come la punta d’uno spillo.

      «Eccomi, maestà,» disse il generale, dopo essersi inchinato fino a terra.

      «Tu hai combattuto anche alle frontiere cambogiane, contro gli Stienghi, è vero?» gli chiese il monarca senza rispondere al suo saluto.

      «Sì, maestà, e mercé la protezione di Sommona Kodom, anche quella volta ho salvato il regno da una invasione,» rispose Lakon-tay, con voce tranquilla.

      «Tu allora, che sei rimasto in quei paesi lungo tempo, devi conoscere una leggenda.»

      «Quale, maestà?»

      «Hai mai udito parlare del driving-hook di Sommona Kodom?»

      Lakon-tay guardò il re con una certa sorpresa, chiedendosi che cosa potesse significare quella strana domanda, poi rispose:

      «Sì, ne ho udito parlare.»

      «Sai dove sarebbe stato sepolto?»

      «In una pagoda d’una vecchia città, a quanto mi hanno narrato.»

      «Che sorge presso il lago misterioso di Tuli-Sap.»

      «Così mi hanno detto.»

      «Ebbene, sappi ora che Sommona Kodom, interrogato dai talapoini, ha fatto comprendere che senza quel driving-hook più nessun elefante bianco si farà vedere né catturare.

      L’uncino di cui si serviva il mahut, quando Sommona era incarnato in un elefante, è necessario per evitare le spaventevoli calamità che presto o tardi piomberanno sul regno non più protetto da alcun S’hen-mheng.

      Vuoi la tua riabilitazione ed il mio perdono, e vuoi evitare a tua figlia la schiavitù? Va’ a trovarmelo.»

      «Ma, maestà… se non esistesse?»

      «Sommona ha parlato ai talapoini. Oseresti mettere in dubbio le parole del dio?» chiese il re con collera. «Sono trecent’anni che si parla di quel driving-hook

      «Potrò io scoprirlo?»

      «Questo è affar tuo: ti concedo tre giorni per fare i tuoi preparativi. Va’, Lakon-tay: ti ho dato il mezzo per riabilitarti.»

      Capitolo VII. La spia

      Il dottor Roberto Galeno, figlio d’un celebre medico che aveva fatto la sua fortuna alla corte del Kedivè d’Egitto e poi a quella del marajah di Mysore, aveva ereditato dal padre una intensa passione per la vita avventurosa.

      Laureatosi appena ventenne, primo fra tutti i suoi compagni, all’università di Padova, dopo un paio d’anni di pratica in quell’ospedale, aveva dato un addio alla città natia, disgustato anche dall’oppressione straniera, e si era imbarcato a Venezia sul primo veliero in partenza per le Indie.

      Ricchissimo, abilissimo e munito anche di lettere di raccomandazione per i rajah e i marajah dell’India, quattro mesi dopo salutava con gioia le torbide acque del sacro Gange e le immense canne delle prime jungle.

      Dopo aver percorso l’India misteriosa, dal capo Comorin alle immense catene dell’Himalaja, aveva fissato la sua residenza nel Mysore, dove già suo padre aveva lasciato tanti graditi ricordi e dove il suo nome era ricordato con una specie di venerazione.

      Spirito però irrequieto, non vi si era fermato a lungo e, dopo un anno, aveva ripreso le sue peregrinazioni visitando le grandi isole del mare della Sonda, ora operando e guarendo, ora cacciando piccoli e grossi animali ed ora studiando quei popoli così interessanti. A venticinque anni, un po’ stanco di quella vita randagia, desideroso di riposarsi alcuni mesi, era sbarcato a Bangkok, l’opulenta capitale del Siam, la piccola Venezia dell’oriente.

      Voleva conoscere anche i Siamesi, prima di tornarsene definitivamente in Europa, e possibilmente anche i Cambogiani, popolo in quell’epoca non più conosciuto di quello dayacho che abita le impenetrabili foreste del Borneo.

      La pittoresca città, col suo magnifico fiume, le sue alte pagode dalle cupole dorate sfolgoranti al sole, aveva subito conquistato l’anima del medico… ed egli si era fermato più del previsto, affittando una graziosa palazzina che si trovava, come abbiamo veduto, di fronte alla phe del generale.

      Conoscitore profondo di tutte le malattie che travagliano e decimano le popolazioni orientali, non aveva tardato a formarsi una numerosa clientela, specialmente fra i ricchi della città e anche fra i grandi della corte, che credevano più alla scienza d’un europeo, uomo stimato soprattutto nel Siam e nella Birmania, che ai ciarlatani del paese.

      Per parecchi mesi non si era mai occupato del suo vicino, che abitava quella splendida phe; ma una sera verso il tramonto, mentre stava sulla sua veranda leggendo un trattato di chirurgia, i suoi occhi per la prima volta si erano incontrati in quelli di Len-Pra.

      La bellissima fanciulla, che stava raccogliendo delle peonie fra le piante che adornavano la sua ricca veranda, accortasi di essere osservata da quello straniero, si era affrettata a ritirarsi; ma la sera seguente, alla stessa ora, il dottore l’aveva riveduta formare un altro mazzo di peonie color di fuoco.

      Per la prima volta in vita sua, un sentimento nuovo, dolcissimo era penetrato nel cuore dell’italiano. Che cos’era? Non sapeva veramente spiegarselo; sapeva solo che quando rivedeva la figlia del prode generale, andava a riposare più contento. E per molte sere i due giovani, entrambi belli, si erano guardati silenziosamente, fino al giorno in cui il tentato suicidio di Lakon-tay li aveva per la prima volta avvicinati.

      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

      Il dottore, sempre un po’ preoccupato dalla disgrazia, che forse in quel momento stava per colpire il disgraziato generale, passeggiava nervosamente dinanzi alla porta del palazzo reale, chiedendosi con una profonda ansietà come sarebbe terminato quel colloquio col possente monarca.

      Conosceva abbastanza bene gli orientali per non farsi troppe illusioni, ed aveva anche conosciuto più d’un rajah o d’un marajah dell’India e dell’Indocina, monarchi capricciosi, testardi, vendicativi e anche molto superstiziosi.

      Cominciava già ad impazientirsi, quando finalmente vide apparire Lakon-tay. Con un solo sguardo capì che quel colloquio non doveva essere stato troppo amichevole, a giudicare dal viso rannuvolato dell’ex ministro della corte dei S’hen-mheng.

      «Cattive nuove, generale?» gli chiese premurosamente.

      «Andiamo nella mia phe,» rispose Lakon-tay. «Esamineremo insieme la situazione e voi giudicherete.»

      Salirono nei palanchini e partirono quasi a passo di corsa, avendo il generale avvertito i portatori di andare molto in fretta.

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