Capitan Tempesta. Emilio Salgari
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Название: Capitan Tempesta

Автор: Emilio Salgari

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ style="font-size:15px;">      – Farai quello che meglio crederai, mio povero El-Kadur. Va’, parti prima che sorga l’alba. Se tu tardassi non potresti più raggiungere il campo degli infedeli.

      – Ti obbedisco, signora. Io saprò presto dove hanno condotto il signor Le Hussière, te lo prometto.

      Uscirono dalla casamatta e risalirono sul bastione, dove le colubrine ed i moschettoni continuavano a tuonare con crescente fracasso, rispondendo vigorosamente alle artiglierie dei turchi, colpo per colpo, onde impedire che minassero le mura, semicadenti, della sfortunata città.

      Capitan Tempesta si avvicinò al signor Perpignano che dirigeva il fuoco dei moschettieri e gli disse:

      – Fate sospendere per qualche minuto il fuoco. El-Kadur deve ritornare ai campi turchi.

      – Nient’altro, signora? chiese il veneziano.

      – No, ma non chiamatemi che Capitan Tempesta. Non siete che in tre soli a sapere ch’io sia; voi, Erizzo ed El-Kadur. Silenzio: potrebbero udirvi.

      – Perdonatemi, capitano.

      – Fate cessare il fuoco per un solo minuto. Non sarà già la rovina di Famagosta.

      La duchessa non comandava più come una donna, bensì come un vecchio capitano, incanutito sui campi di battaglia, con frasi secche ed incisive, che non ammettevano alcuna replica.

      Il signor Perpignano passò l’ordine agli artiglieri e agli archibugieri, mentre l’arabo, approfittando di quella momentanea tregua, si spingeva fino all’orlo del bastione accompagnato da Capitan Tempesta.

      – Guàrdati dal turco, signora le sussurrò prima di scavalcare la merlatura. – Se morrai tu, morrà anche il povero schiavo, dopo averti però vendicata.

      – Non temere, amico rispose la duchessa. – Conosco la terribile scuola della spada, meglio di tutti i capitani rinchiusi in Famagosta. Addio, va’, te l’ordino.

      L’arabo, per la terza volta, represse un sospiro, più lungo forse degli altri due, s’aggrappò alle pietre sporgenti e scomparve nell’oscurità.

      – Quanta affezione in quell’uomo, mormorò Capitan Tempesta – e forse quanto amore segreto. Povero El-Kadur! Era meglio che tu fossi rimasto per sempre nei deserti del tuo paese.

      Ritornò lentamente indietro, mettendosi al riparo d’un merlo, continuando le grosse palle di pietra dei turchi a cadere sul bastione e si assise su un cumulo di sassi, appoggiando il mento e le mani sul pomo della sua spada.

      Intanto le detonazioni si succedevano alle detonazioni, Artiglieri ed archibugieri coprivano la tenebrosa pianura di ferro e di piombo o di uragani di mitraglia, per fermare gli audaci minatori islamici, che si avanzavano con un coraggio più unico che raro, sfidando intrepidamente i tiri dei veneziani e degli schiavoni.

      Una voce lo trasse dalle sue meditazioni.

      – Sicchè, ancora nulla, capitano?

      Era il signor Perpignano che si era avvicinato, dopo d’aver dato il comando agli schiavoni di non far risparmio di munizioni.

      – No – rispose Capitan Tempesta.

      – Sapete almeno se egli sia vivo?

      – El-Kadur mi ha detto che Le Hussière è sempre prigioniero.

      – E di chi?

      – Lo ignoro ancora.

      – Mi sembra strano che quei terribili combattenti, che non accordano quasi mai quartiere, lo abbiano risparmiato.

      – È quello che penso anch’io, – rispose Capitan Tempesta – e forse è quello che mi rode più il cuore.

      – Che cosa temete, capitano?

      – Non lo so, eppure il cuore delle donne che amano difficilmente s’inganna.

      – Non vi comprendo.

      Invece di rispondere alla domanda, Capitan Tempesta si alzò, dicendo:

      – L’alba fra poco spunterà ed il turco verrà sotto le mura a lanciare la sua sfida. Andiamo a prepararci al combattimento. O tornerò vittoriosa o rimarrò morta e le mie angosce saranno finite.

      – Signora, – disse il tenente – accordatemi la grazia di combattere il turco. Se anche soccombessi, nessuno mi piangerebbe giacchè sono l’ultimo discendente dei conti di Perpignano.

      – No, tenente.

      – Il turco vi ucciderà.

      Un sorriso sdegnoso sfiorò le belle labbra della fiera duchessa.

      – Se io non fossi stata così forte e risoluta, Gastone Le Hussière non mi avrebbe amata – disse. – Io mostrerò ai turchi ed ai comandanti veneti come sa battersi Capitan Tempesta. Addio, signor Perpignano. Non dimenticherò mai nè El-Kadur, nè il mio prode tenente.

      S’avvolse tranquillamente nel suo ferraiuolo, posò la sinistra sulla spada con un gesto superbo e scese dal bastione, mentre le artiglierie degli assediati e degli assedianti tuonavano con crescente furore, illuminando, di quando in quando, sinistramente la notte.

      CAPITOLO III. Il Leone di Damasco

      L’alba incominciava a sorgere, illuminando le pianure di Famagosta cosparse di rovine fumanti. Il cannone non era stato zitto un sol momento quella notte e tuonava ancora, ripercuotendosi contro le vecchie case della città assediata ed entro le strette viuzze già quasi tutte ostruite da macerie.

      L’immenso campo delle orde turche a poco a poco si scopriva. Miriadi e miriadi di tende coprivano l’orizzonte, alcune altissime a tinte svariate, ma sempre smaglianti, sormontate da aste con una mezzaluna sulla cima e una coda di cavallo sotto ed altre più piccole.

      In mezzo a quel caos, giganteggiava quella altissima e vastissima del vizir, il comandante in capo del formidabile esercito, tutta in seta rossa, collo stendardo verde del Profeta spiegato sulla cima, quello stendardo che bastava da solo a fanatizzare gli infedeli ed a renderli formidabili e furibondi come i leoni dei deserti arabi.

      Miriadi d’uomini, chi a piedi e chi a cavallo, si agitavano sul margine dell’accampamento, facendo scintillare ai primi raggi del sole le loro armature, i loro elmetti e le loro scimitarre. Guatavano con occhi sanguinosi Famagosta, meravigliandosi che quel nido di cristiani non fosse ancora stato espugnato dopo il furioso bombardamento della notte.

      Capitan Tempesta, che era tornato, dopo aver avvertito il comandante della piazza della sfida corsa fra lui ed il polacco, guardava l’accampamento dal vano di due merli sfuggiti miracolosamente alle enormi palle di pietra, che avevano coperto il bastione di rottami e di schegge.

      A pochi passi, il polacco, aiutato dal suo scudiero, si faceva stringere la corazza, sagrando incessantemente perchè non la trovava mai sufficientemente a posto. Era un po’ pallido e non pareva molto tranquillo, quantunque, dobbiamo dirlo a onor suo, non fosse già la prima volta che si misurava cogli infedeli.

      Il signor Perpignano, aiutato da uno schiavone, teneva invece per le briglie due splendidi cavalli di razza incrociata italiana ed araba, osservando di quando in quando minutamente le cinghie e mormorando fra sè:

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