Eva. Giovanni Verga
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Название: Eva

Автор: Giovanni Verga

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ quell’uomo?»

      «Sì» mormorò coi denti stretti, «e l’ucciderò!»

      «Per colei?»

      «Sì!»

      «L’ami!»

      Egli trasalì.

      «La odio! La disprezzo! Vorrei morderla, vorrei schiaffeggiarla!… vorrei pestarmela sotto i piedi!»

      Tossì di nuovo e soffocò la tosse col fazzoletto. Questa volta lo sforzo fu così violento che egli chiuse gli occhi, e sulle sue guance pallidissime passarono certe fiamme di malaugurio. Allorché riaprì gli occhi mi sembrò di vedere un cadavere. Egli mi disse con voce intieramente mutata da un istante all’altro:

      «Tu lo vedi, se non muoio di spada morrò di qualche altra cosa. Ma non penso a ciò che per i miei poveri genitori, e per la mia sorellina… Stringendo la tua mano mi sembra di stringermi al cuore quei poveretti che saranno tanto afflitti…Ecco perché ho voluto parlarti. Non è vero che in certi momenti, quando siamo molto lontani dalla famiglia, proviamo delle strane tenerezze per le persone che ce la rammentano, o che hanno il più lontano rapporto con essa?»

      «Mio caro… tu esageri…»

      «Io esagero?» rispose con lo stesso sorriso. «Va’ a chiederlo ai medici di Santa Maria Nuova se esagero… o vieni alle Cascine fra le sei e le sette…»

      «Cotesto duello è dunque inevitabile?»

      Egli mi guardò sorpreso.

      «A meno che il conte non prenda in santa pace la scommessa.»

      «Quale conte?»

      «Il conte Silvani, il trovatore.»

      «Ma puoi anche uscirne vincitore…»

      «Perbacco!» esclamò con sinistro entusiasmo. «Lo so!»

      «Ma adesso hai la febbre. Non vorrai aspettare qualche altro giorno?»

      «La febbre non mi lascia mai. Ma che importa!… Anzi!… Vedi che il pugno trema!…» e lo guardava con triste soddisfazione. «Vedrai come ci starà bene la spada!»

      «E la tua famiglia?»

      «Povera mamma!» diss’egli passandosi il guanto sugli occhi.

      «Non vorrai vederla?»

      «No!… No!…» ripeté dopo un breve silenzio in tono tutto diverso e afferrandomi le mani. «Non ne ho il coraggio.»

      Le lagrime gli luccicavano nell’orbita, e sentii che quelle lagrime mi toccavano il cuore.

      «Se sapessi come sono fatti gli occhi della madre che ti affissano in volto in certi momenti e ti chiedono certe cose!… Se sapessi!» mormorò come parlando fra di sé.

      Tutt’a un tratto sentii trasalire le sue mani nelle mie.

      «Guarda!» esclamò. «La vedi?… Lei!… Non è bella?» mi domandò Enrico seguendola tra la folla con gli occhi ardenti.

      «Oh!»

      «Se tu la vedessi senza maschera!…»

      «L’ho vista.»

      «Ah! tu la conosci! Ella ti ha gettato la fiamma del suo sguardo… anche a te!.. Non è vero che farebbe commettere tutte le pazzie?…»

      Essa scomparve verso la porta. Enrico era rimasto sempre con gli occhi fissi dov’ella non era più, e le scagliò dietro una parola infame come un’imprecazione.

      «Ah! Ah!» sogghignò con un riso che voleva essere allegro ed era tristissimo. «Se tu sapessi che cosa ho fatto per colei!» e si torceva le mani. «Tu riderai di me, eh?»

      «Oh, no! Ti compiango.»

      «Non voglio della tua compassione!» mi disse bruscamente.

      Poscia, come pentito, e stringendomi la mano:

      «Se tu sapessi come mi sento spregevole e vile!… come mi disprezzo! Dimmi,» soggiunse dopo una breve esitazione, piantandomi in volto due occhi luccicanti come quelli di un pazzo, «voglio domandarne a te che ti occupi di coteste orribile malattie… Dimmi come possono farsi di tali cose per una donna che si disprezza, che si odia… Dimmi come pur sputandole in faccia tutto quest’odio e questo disprezzo si possa morire per lei, si possa sacrificarle l’onore, la vita, la famiglia, la giovinezza, l’arte, tutte le cose che sorridono e che si amano, per abbeverarsi del fiele dell’amore di lei… Dimmi come accada tutto ciò…E dimmi che nei miei panni tu avresti fatto come me, e saresti vile e spregevole del pari!…Oh dimmi questo!…ché mi sembra di impazzire!…Vuoi che io ti narri questa storia…vuoi?…»

      «Sì!» gli dissi sentendomi invadere dalla sua commozione.

      «Ma bisogna che ti dica quello che ero per farti comprendere quel che sono diventato. Ero un genio in erba, una speranza dell’arte italiana, coi capelli lunghi e il cappellaccio alla Rubens; abitavo all’ultimo piano di una vecchia casa in Santo Spirito che il vento, d’inverno, sembrava far traballare sulle fondamenta, e desinavo a cinquantacinque lire al mese. Però in tutte coteste cose ci mettevo, direi, tanta buona fede, che le rendevo quasi rispettabili. Il mio paese mi pagava una pensione, allo scopo di aumentare il numero dei suoi grandi uomini. I miei professori ed i miei colleghi mi tenevano in gran conto, – è vero che c’era poco da fidarsi di loro che avevano in corpo le stesse magagne, ma chi ci avrebbe rinunciato? – Il pubblico ed i giornali mi bruciavano sotto il naso tutti gli stimolanti della vanagloria. Ebbene, chi sarebbe stato più forte di me scagli la prima pietra… Io battezzai pomposamente la mia vanità; la chiamai amore dell’arte, e presi sul serio i miei capelli lunghi e tutte le altre belle cose. Ero contento di passeggiare per le vie di Firenze, come se andassi a braccetto con Raffaello o con Michelangelo. Mi pareva di respirare l’arte a pieni polmoni; e avevo in cuore tutti gli entusiasmi, le antipatie, gli affetti della mia illusione. Vivevo come in un’atmosfera del Cinquecento che mi rendeva idolatra dei palazzi anneriti dal tempo, delle gronde sporgenti e malinconiche, e delle acque torbide dell’Arno… In fede mia!» aggiunse con un ghigno amarissimo «non avevo ancora pensato all’ospedale e al camposanto…»

      Tacque e si passò a più riprese la mano sulla fronte, come per scacciarne molesti pensieri o la commozione che lo vinceva.

      «Follie! si!» mormorò dopo qualche istante quasi parlasse fra di sé.

      «Sei certo di non sbagliarti giudicando così dei sentimenti umani?»

      «Oh, no…Nessuno potrebbe avere cotesta sicurezza… poiché non ci sono sentimenti veri.»

      «Eh?!»

      «Quistione d’ottica, mio caro. Io chiamo follie quelli che tu chiami nobili affetti,» rispose con cinismo amarissimo «perché… perché mi hanno ridotto quale mi vedi… – Quanto guadagni con la tua arte?» soggiunse dopo un breve silenzio, appoggiando l’accento in modo ironico sull’ultima parola.

      La domanda era così brusca e brutale che lo guardai sorpreso. Egli scoppiò a ridere. «Lo vedi,» mi disse, «ti vergogni a dirlo! Adunque sei un pazzo vanitoso, il peggiore.»

      Ero disgustato da quell’affettazione, e gli risposi secco СКАЧАТЬ