Più che l'amore: Tragedia moderna. Gabriele D'Annunzio
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Название: Più che l'amore: Tragedia moderna

Автор: Gabriele D'Annunzio

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

Серия:

isbn: 4064066068554

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СКАЧАТЬ michelangiolesca che si sveglia su l'arca, ai piedi del Pensieroso, con in tutte le membra la pesantezza di un dolore titanico; il qual non è se non l'ingombro dei pensieri e degli atti ancor costretti nell'impronta materna perché troppo ancóra immeritevole di riceverli si mostra il popolo degli schiavi, non pur degno di far da strame al sonno della sorella Notte che là di contro dorme senza riposarsi.

      Una scena ornata di statue non comporta se non la più severa nudità. L'arte del tragedo, come quella dello statuario, ha per oggetto il nudo. Obbedendo alla legge della mia arte, con non timida mano io ho spogliato di ciò ch'era vile e fugace l'anima dei miei simulacri e ho potuto talvolta sollevarla fino alla regione del canto. La stanza dell'Ulisside, nel secondo episodio, non è dissimile alla tenda del Telamonio. Il «lordume civile» sembra spazzato via per sempre, se bene salga per la finestra aperta «il romorio degli insetti umani». E quel romorio è remoto come il rombo dell'Ellesponto.

      Nel primo episodio la denudazione inesorabile avviene sotto gli occhi stessi dello spettatore. I personaggi non sono ancor del tutto liberati dal pregiudizio e dalla menzogna, non hanno ancor del tutto abbandonata la paura di soffrire e di far soffrire. Di tratto in tratto ancor s'ode, nelle pause della loro angoscia, la voce fioca e roca della consuetudine. A ogni parola, a ogni gesto del violento sembra che nell'aria della stanza tranquilla qualche cosa si schianti, qualche cosa si laceri. Quando il domatore di fiumi col linguaggio della poesia celebra la riconciliazione dell'Uomo e della Natura, ecco che la «Potenza velata dalla sua stessa bellezza» entra d'improvviso nella scena e impone la sua legge alla vicenda. Ella forzerà le palpitanti creature a cercare nel più profondo la lor «vera vita» e a manifestarla.

      E per manifestarla ciascuno deve accettare «la meravigliosa necessità della solitudine». La maschera del Titano sospesa alla parete non cessa di biancheggiare pur nell'ombra crescente come un segno di luce inestinguibile. «È l'isola dello spirito» dice Corrado Brando «e non v'è nulla intorno fuorché la tempesta».

      La prima apparizione di Maria è accompagnata dalla freschezza e quasi direi dal fremito della primavera acerba. Ella sopraggiunge con le mani piene di violette; ma l'odore dei fiori non le impedisce di sentire nell'aria chiusa l'odore della febbre mortale. Al suo gesto di supplichevole amore, Corrado non volge il capo nel partirsi ebro di lontananza e di perdimento. «Chi lo fermerà?» Ed ecco, scomparsa quella frenetica forza eccitatrice, la vita sembra rallentare il suo bàttito, illanguidirsi, raumiliarsi. Alle imagini della grandezza dolorosa e indòmita succedono le imagini delle bisogne umili e consuete. I vecchi infermi si affacciano alle finestre dell'Ospizio tutte eguali; nel ricordo camminano in fila su la spiaggia anziate i giumenti placidi che vengono dalle carbonaie di Conca. Sorge dal passato e s'indugia per qualche attimo nell'aria primaverile un sentimento di pace e di securità. Le lacrime della giovine donna sgorgano subitanee come la pioggia di marzo ma più silenziose. Entrano i due uomini dediti a offici che sono inutili per la vita: l'uno tenta di far rivivere le pietre morte, l'altro cura i mali incurabili della vecchiezza. E l'uno e l'altro vengono tratti dal «desiderio di riscaldare l'anima a un focolare amico», vengono per respirare «in una illusione di santità familiare». Evocano il dolce agio di ieri, la vecchia fante che porta la lampada verde, il silenzio della strada dietro le tende, gli usignuoli dell'Aventino, il rimorchio sul Tevere, i vaghi romori che approfondiscono la quiete; e quel navalestro Pàtrica che è quasi la larva del Tempo, quel passatore informe su cui sembra che passino le acque del fiume come tutte le cose labili.

      O Vita, o Vita,

      dono terribile del dio,

      come una spada fedele,

      come una ruggente face,

      come la gorgóna,

      come la centàurea veste!

      Ecco che di sùbito l'eterna Medusa balza dal pavimento della stanza come da una voragine e agghiaccia l'anima di colui che ha tanto sofferto e tuttavia teme di toccare il fondo della miseria. Il capo irto di serpenti e grondante di nero sangue è là, in mezzo alle apparenze familiari, tenuto sospeso da un pugno invisibile. Per vincere l'orrore, per tener diritte nella schiena le vertebre che si disgiungono, bisogna inventare una virtù e animarla di sé con uno sforzo splendido e veloce che somigli a una resurrezione. Virginio Vesta, Maria Vesta, nati d'un medesimo sangue, suggellati dal medesimo suggello, sono d'improvviso chiamati alla vita eroica. Una voce li chiama, li solleva, li trasfigura e li disgiunge. Nella notte piena si compie il sublime travaglio, incominciato nell'incerto crepuscolo.

      Entrambi, guardandosi, sono sopraffatti dall'angoscia. Le fibre dei legami lacerate sembrano gemere in loro. Né l'uno né l'altra hanno ancora conquistata la libertà suprema. Virginio barcolla sotto il colpo, e si lascia sfuggire una parola poco virile. «Non c'è più nulla, allora!» balbetta, quando Maria ha confessato. Gli fa paura il suo deserto.

      Ma la sorella è la prima a vincere il tremito; è la prima a respingere l'uso il costume e il limite. Il suo sguardo è già impavido e fisso dinanzi a sé, mentre quello del fratello ancóra s'indugia tra i fantasmi leni del passato. Quando egli riafferra la sua volontà e le dice: «Voglio difenderti», ella ha già l'accento eroico nella sua risposta: «Contro chi, se non temo?» Il distacco è avvenuto. Egli è solo, omai; e non può più proteggere, e non può più consolare. Un tempo le due vite si toccarono, e ne nacque un bene inaudito. Ora i due nati dello stesso sangue ridiventano estranei e soli. Per costruire un santuario bisogna abbatterne un altro. Ma nella donna parla per l'ultima volta l'antica voce tirannica quando, a sostener l'amato, ella afferma la sua certezza: «Resterà col mio amore....»

      Perché le sorga in bocca la nuova voce è necessario ch'ella faccia la sua vigilia «nel gelo della morte, con la finestra aperta su l'alba, a piedi scalzi come chi deve passare all'altra riva».

      Qui penetriamo nell'imo cuore del drama, la cui vicenda è tragica, la cui essenza è lirica. Qui pienamente l'idea centrale s'illumina, e irraggia del suo splendore la catastrofe. «Da che profondità è salito alla tua bocca questo canto? T'inseguivo nelle tue musiche quale ora mi ti mostri. Ho ascoltato con angoscia tutte le tue melodìe per attendere che quest'una venisse. E ch'io abbia potuto udirla in questo punto, è forse l'ultimo dono del Destino.»

      Il ritmo funebre, che accompagna il passo dell'eroe verso la sua fine, s'arresta all'inattesa apparizione della dolce creatura figlia del canto; e anch'egli, l'assassino, per un momento appare trasfigurato, purgato d'ogni macchia, esaltato dal miracolo, come se dalla tenebra la donna reduce gli uscisse incontro d'improvviso con una luce di stella. La parola sofoclèa sembra per lui riempirsi d'un novo senso: «O tenebra, mia luce!»

      Un miracolo infatti si compie, insperato, come nell'Alcesti di Euripide. Admeto «l'indomabile» vede sparire dal suo talamo la florida figlia di Pelia. Per serbare la sua propria vita, egli manda la devota verso la prateria d'asfodelo, la sospinge nel regno di giù. Similmente Corrado dà nel suo cuore il commiato crudele alla sua donna, per proposito di scampo; e non volge il capo al gesto supplichevole della mano ancor fresca di fiori. Mi piace di comparare l'anelito di Maria verso l'Alba con il sospiro della Tessala verso lo splendore del Giorno. Ἅλιε καὶ φάος ἁμέρας.... La creatura nuova ha il desiderio di morire perché dalla sua morte venga all'amato «qualche bene ignoto». Ella si distende supina e, oppressa dal peso del suo corpo non più vergine, si offre vittima volontaria: «Ecco, sono distesa per lui e non mi alzerò più». Veracemente dunque, allorché va verso lui che non l'aspetta, ella torna come Alcesti dal regno profondo. Alzando ella il suo velo, Corrado la riconosce reduce dal Buio; non altrimenti che Admeto, alzando Eracle il velo della straniera, riconosce il volto divino della sua sposa a cui ancor siede nella bocca vivente il silenzio dell'Ade. — Θαῦμ’ ἀνέλπιστον τόδε — grida con attonita gioia il re ospitale.

      Alcesti si tace. La nuova creatura si abbandona all'ebrezza del canto per celebrare il suo miracolo interiore. «Dov'era la maschera СКАЧАТЬ