Le Novelle della Pescara. Gabriele D'Annunzio
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Читать онлайн книгу Le Novelle della Pescara - Gabriele D'Annunzio страница 9

Название: Le Novelle della Pescara

Автор: Gabriele D'Annunzio

Издательство: Bookwire

Жанр: Языкознание

Серия:

isbn: 4064066069278

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СКАЧАТЬ era tenuta da una eccitazione amara, da una specie di febbre che a volte le dava il battito dei denti e le vampe alla faccia e i brividi alla radice dei capelli, alla nuca. Ella non poteva più star ferma, non poteva più star seduta; poichè una furia di mobilità le sollecitava tutte le membra. Nella scuola, in mezzo al coro eguale dei discepoli, in mezzo a quello stillicidio continuo di sillabe, uno spirito di ribellione le abbagliava la vista all'improvviso, ed ella avrebbe voluto balzare tra i fanciulli, sconvolgere con le mani tutte quelle capigliature, rovesciare la lavagna, le tabelle, le panche, rompere in grida, spezzare qualche cosa, stordirsi. Sotto lo sguardo freddo e scrutatore di Camilla, poco mancava che ella non svenisse per lo spasimo, per la bile, per l'immenso sforzo interiore di dissimulazione.

      Poi, quando Camilla usciva, ella si agitava per tutte le stanze, moveva le sedie, morsicchiava un fiore, beveva d'un fiato un gran bicchier d'acqua, si guardava nello specchio, si affacciava alla finestra, si abbatteva a traverso il letto, sfogava in mille modi l'irrequietudine, l'esuberanza della vitalità sensuale. Tutto il suo corpo, nel tardivo fermento della verginità, si era arricchito ed espanto. La sua testa non era bella, non aveva la quadratura vigorosa, lo splendore olivastro di certe razze d'Abruzzo, quelle pure linee del naso e del mento svolgentisi grecamente nella latina ampiezza della faccia. Ma ella, inconsapevole, sotto la goffaggine delle vesti grige, sotto la cascaggine delle pieghe incomposte, celava un bel corpo delicato.

      Erano i giorni primi di giugno: sorgeva l'estate dalla primavera, come da un campo d'erbe un àloe. Tra il mare e il fiume tutto il paese di Pescara godeva nella ventilazione salina e nel refrigerio fluviale, come distendendo le braccia verso quei naturali confini d'acqua amara e d'acqua dolce. Salivano alla stanza di Orsola allora le blandizie della temperie; insetti lucidi urtavano ai vetri e rimbalzavano, come una grandine d'oro.

      La vergine, se era sola, provava un bisogno di distendersi, di gettare lungi le vesti, di giacere, e di raccogliere su la pelle quella blandizia ignota che fluttuava nell'aria.

      Cominciava lentamente a spogliarsi, con gesti pigri, indugiando con le dita in torno alle allacciature e ai fermagli, facendo piccoli sforzi svogliati nel cacciar fuori le braccia dalle maniche, fermandosi a mezzo e abbandonando in dietro la testa dai capelli crespi e corti, quella sua testa di giovincello. Lentamente, sotto l'amorosa fatica, dalla informità delle vesti, come dalla scoria del tempo una statua diseppellita, il corpo ignudo si rivelava. Un mucchio di lana e di tela vile era ai piedi della pulzella così purificata, e da quel mucchio ella come da un piedestallo sorgeva nella luce coronandosi con le braccia, mentre al contatto dell'aria una vibrazione a pena visibile le correva a fior della pelle. In quell'attitudine momentanea tutte le linee del torso si distendevano e salivano verso il capo ricinto: si appianava la leggera onda del ventre non anche deturpato dalla concezione; gli archi delle coste si disegnavano in rilievo. Poi, se un insetto entrava nella stanza, il ronzìo aliante in torno ed accennante ad attingere la nudità, il ronzìo sbigottiva Orsola; ed era allora un difendersi dalla puntura mal temuta, erano movimenti serpentini, scatti di muscoli sotto la cute, paurosi raggruppamenti di membra, falli dei malleoli non bene forti al gioco.

      Poi, così eccitata dal moto e calda, ella aveva voglie nuove. Apriva l'uscio, cauta in sospetto; e metteva fuori il capo guardando nell'altra stanza. C'era un odore di chiuso, quello squallore inanimato che hanno le scuole senza fanciulli. Nelle tabelle quadrate l'alfabeto cubitale e i gruppi dei dittonghi e delle sillabe stavano muti dominatori del luogo. Orsola si avanzava evitando co' piedi nudi gli interstizii del pavimento smosso, provando la titubanza di chi cammina scalzo per la prima volta su un piano aspro e la confusione di una donna che non sente più in torno al suo passo l'impedimento abituale della veste. Andava così fino alla terza stanza, dov'era l'acqua. Intingeva le mani, si spruzzava tutta, coraggiosamente, sussultando se una gocciola più grossa le rigava l'epidermide. Usciva di là, tutta sparsa di rugiada: andava verso lo specchio di un antico canterano.

      Restavano in quel canterano ancora frammenti d'intarsio qua e là. Lo specchio, che celava un armario sovrastante, aveva in torno fregi misti d'oro e di colori e in alto due puttini decapitati. Orsola saliva fin là, attratta da una irresistibile curiosità di vedersi nuda. La sua persona tutta ancora fresca di gocciole sorgeva nell'offuscamento dello specchio come in un verdazzurro fondo marino. Ella si guardava sorridendo. Il sorriso, ogni movimento dei muscoli pareva far tremolare tutte le linee della nudità nello specchio come quelle di una imagine dentro le acque. Allora ella cominciava una specie di mimica vanitosa, guardando riprodursi tutti i suoi gesti nella lastra, aprendo le labbra per mostrare i denti, alzando le braccia per mostrare le ascelle, presentando la schiena arcata e forzando il capo a volgersi in dietro; fin che un pazzo impeto di ilarità, dinanzi a quello spettacolo di sè, le scuoteva tutta la persona. In fondo in fondo, dietro la donna, si rifletteva dalla parete avversa la tabella dell'alfabeto.

       Indice

      Ora avvenne che in uno di quei momenti battesse alla porta della scala Lindoro venuto su con le conche. Orsola gridò:

      — Aspetta!

      E raccolse da terra le vesti, in furia; se le mise addosso, in furia; andò ad aprire.

      Erano le sei di sera: il riverbero bianco del palazzo di Brina entrava nella stanza; tutto il paese di Pescara, grande ospizio di rondini, cantava.

      I due, in mezzo, ritti, parlarono del ritrovo imminente. Lindoro con la sua loquacità cercava di vincere le estreme esitazioni della pulzella; poichè egli già teneva una parte della mercede, e l'adescava il resto. L'artifizio persuasore gli avvivava le parole, gli occhi, i gesti. Egli aveva nel fiato l'odore del vino, e nella faccia, su le tempie, pe 'l passaggio recente del rasoio, piccole macchie rosee e violacee. Mentre parlava gli si scopriva la fila dei denti eguale e schietta, una di quelle forti chiostre che spesso armano le bocche plebee; e la singolarità emergeva vivacemente dalla generale turpitudine dell'uomo.

      Orsola opponeva dubbii, paure, ad interrompere; ma già, poi che l'impudicizia a mano a mano sorgendo più calda dal fòmite del vino bevuto si insinuò nelle persuasioni del galeotto, ella cominciava a turbarsi. S'era ritirata a poco a poco verso il muro, appoggiandovisi. Dalle aperture, lasciate qua e là nell'abito per la furia del rivestirsi, si intravedevano i lembi del lino. La gola era tutta scoperta, i piedi senza calze nascondevano nelle pianelle soltanto le dita.

      Ma ella, a un punto, involontariamente, per quel cieco istinto da cui una donna è avvertita d'essere innanzi a un uomo bramoso, corse con la mano a chiudere sotto la gola, sul petto gli uncinelli. Quell'atto, col quale Orsola così riconosceva nel mezzano l'uomo, quell'improvviso atto fece scattare dall'abbiezione di Lindoro un impeto di orgoglio maschile. — Ah, egli dunque aveva potuto per sè stesso turbare una donna! — E si fece più da presso; e, come il coraggio del vino lo animava, quella volta nessun ritegno di viltà trattenne il bruto.

       Indice

      Orsola rimase inerte, lunga su i mattoni, con nelle vesti, con in tutta la figura lo scompiglio della donna violata.

      Ma, quando udì i passi di Camilla nella scala, dal fondo della sua languidezza si levò su un gomito; rapidamente passò le mani su le vesti sconvolte; ritrovò le parole per dire alla sorella che una sùbita mancanza di forze l'aveva fatta cadere nel mezzo della stanza.

      Fuori, annottava. Sul paese si spandeva la grande frescura glauca della sera di giugno, originante dall'Adriatico. Voci e risa empivano la piazza; giù pe 'l casamento cantava la gioia sabatina degli abitanti sollevati. Dal secondo pianerottolo Teodora La Jece gridò:

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