Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13. Edward Gibbon
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Читать онлайн книгу Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13 - Edward Gibbon страница 14

СКАЧАТЬ ventisette, dopo aver dati gli ultimi ordini, spedì i comandanti de' corpi e gli araldi per tutto il campo, a divulgare i motivi della perigliosa impresa e ad eccitare i soldati ad adempiere con valore i proprj doveri. Il timore è una delle più forti molle morali sotto i governi dispotici; le minacce di Maometto espresse nello stile degli Orientali, annunziavano che se anche i fuggiaschi e i disertori avessero l'ali114, non fuggirebbero alla giustizia inesorabile del Sultano. La maggior parte de' giannizzeri e de' Pascià perteneano per nascita a famiglie cristiane: ma successive adozioni perpetuavano la gloria del nome turco, e a malgrado del cambiamento degl'individui, l'imitazione e la disciplina mantengono lo spirito di una legione, di un reggimento o di un'oda. Prima di portarsi alla pia impresa, i Musulmani vennero esortati a purificare il loro spirito colla preghiera, il corpo con sette abluzioni, e ad astenersi da ogni nudrimento fino alla sera della domane. Uno stuolo di dervis trascorreva le tende per inspirare ai soldati la brama del martirio, e per assicurarli di futura perpetua giovinezza da trascorrersi in riva ai fiumi, e per mezzo ai giardini del paradiso, in braccio alle belle huris dagli occhi neri. Cionnullameno, Maometto calcolava anche più sull'effetto delle ricompense temporali e visibili. Venne promesso di raddoppiare gli stipendj in premio della vittoria. «La città e gli edifizj mi appartengono, dicea Maometto; ma lascio a voi i prigionieri e il bottino, l'oro e la bellezza; siate ricchi e felici. Le province del mio Impero son numerose; l'intrepido soldato che salirà il primo le mura di Costantinopoli, otterrà in guiderdone la più bella e la più ricca di queste da governare; la mia gratitudine accumulerà sovr'esso onori e fortune, oltre quanto uom sappia immaginare». Allettamenti sì variati e poderosi infiammarono gli animi de' soldati, che disprezzando la morte, e impazienti della battaglia, fecero risonare il campo dell'acclamazione maomettana. «Dio è Dio, non v'è che un Dio, e Maometto è l'Appostolo di Dio115», e da Galata fino alle Sette Torri, la terra e il mare vennero rischiarati dai fuochi che gli assedianti avevano accesi durante la notte.

      Ben diverso era lo stato cui ridotti si vedeano i Cristiani che con impotenti grida deploravano i lor peccati, o il gastigo, del quale erano minacciati. Fu esposta in una processione solenne la celeste immagine della Vergine; ma la Vergine non ascoltò le loro preghiere; accusavano l'ostinazione dell'Imperatore che non avea voluto cedere la piazza, quand'era tuttavia in tempo di farlo, e anticipavano gli orrori della sorte che gli aspettava, sospirando la pace e la sicurezza di cui si lusingavano godere sotto il servaggio de' Turchi. I più nobili fra i Greci e i più prodi confederati vennero nella sera dei ventotto di maggio chiamati al palagio, perchè si preparassero a sostener con coraggio l'imminente assalto generale de' Turchi. L'ultimo discorso che ad essi fece Paleologo potè dirsi l'Orazione funebre dell'Impero romano116. Promise, supplicò, fece inutili sforzi per riaccendere ne' cuori altrui quelle speranze che già nel suo erano spente; niuna prospettiva ei poteva offrire che di tristezza e di lutto non fosse; tanto più che il Vangelo e la Chiesa cristiana non hanno promessa alcuna sensibile ricompensa agli Eroi che cadono in servendo la loro patria. Pure l'esempio del Principe e la noia di starsi rinchiusi in una città assediata, aveano armati del coraggio della disperazione questi guerrieri. Lo storico Franza che assistè a questa lugubre assemblea, con istile patetico la dipinge. Versarono lagrime, si abbracciarono; dimenticando le lor ricchezze e le loro famiglie, alla morte si consagrarono. Trasferitosi al suo posto ciascun de' Capi, trascorse la notte col far vigile sentinella sui baloardi. L'Imperatore, seguìto da alcuni fedeli compagni, entrò nella Chiesa di S. Sofia che stava per divenire tra poco una moschea. Piansero, orarono a piè degli Altari e ricevettero la comunione. Dopo aver riposato pochi momenti nel palagio che risonava di lamentazioni e di grida, chiese perdono a tutti coloro ch'ei potesse avere offeso117, e montò indi a cavallo per visitare i posti e scoprire le fazioni del nemico. La caduta dell'ultimo de' Costantini è più gloriosa della lunga prosperità de' Cesari di Bisanzo.

      Un assalto può talvolta sortir buon successo in mezzo alle tenebre; però la sapienza militare e le nozioni astrologiche del Sultano lo indussero ad aspettare il mattino di questo memorabile ventinove maggio 1453 dell'Era Cristiana. Un solo istante di quella notte non fu perduto per Maometto; le truppe, coi cannoni e colle fascine, si erano avanzate fin sull'orlo della fossa che in molti luoghi offeriva un sentiero spianato alla breccia; le ottanta galee quasi toccavano colle prore e colle scale da scalata i muri del porto men atti ad essere difesi. Il Sultano ordinò, sotto pena di morte il silenzio; ma le leggi fisiche del moto e del suono non obbediscono alla disciplina e al timore. Ben potea ciascun individuo soffocar la voce e misurare i passi, ma le pedate e il lavoro di un esercito producevano necessariamente confusi suoni che ferirono gli orecchi delle sentinelle della torre. Al sorgere dell'aurora, i Turchi incominciarono l'assalto per mare e per terra, senza avere sparato, giusta l'uso, il cannone del mattino; la loro linea d'assalto fitta e continua è stata paragonata ad una lunga corda torta o intrecciata118. Le prime file vedeansi composte della ciurma di quell'esercito, di un branco di volontarj che si batteano senz'ordine nè disciplina, di vecchi o di fanciulli, di contadini e di vagabondi, e finalmente di tutti coloro che aveano raggiunto l'esercito colla cieca speranza del bottino e del martirio. Un impulso generale avendoli spinti a' piedi della muraglia, i più arditi a salire sul baloardo vennero precipitati entro la fossa, e tanta era di costoro la calca che ogni dardo, ogni palla de' Cristiani ne atterrava qualcuno. Ma non andò guari che una sì penosa difesa stremò le forze e le munizioni degli assediati: i cadaveri di Ottomani che già empievano la fossa, divennero un ponte ai lor colleghi, e la morte delle prime turbe mandate al macello fu più utile al trionfo del Sultano che nol fosse mai stata la loro vita. I soldati della Natolia e della Romania condotti dai loro Pascià e Sangiacchi, fecero impeto gli uni dopo gli altri: si combatteva da due ore con vario ed incerto successo, ed i Greci aveano tuttavia qualche vantaggio, e ne guadagnavano ancora; ma uditasi la voce del greco Imperatore che eccitava i suoi soldati a compiere con un ultimo sforzo la liberazione del loro paese, si fecero innanzi i vigorosi ed invincibili giannizzeri che non avevano ancor combattuto. Stava spettatore e giudice del lor coraggio il Sultano a cavallo, con in mano una clava; e circondato da diecimila uomini della sua truppa domestica, da lui serbata ai momenti i più decisivi, colla voce e coll'occhio regolava e spingeva quelle onde di combattenti. Dietro questa terribile linea vedeasi una numerosa truppa di giustizieri, i quali, secondo l'uopo, stimolavano, rattenevano, punivano i soldati, che avevano il pericolo in prospetto, l'infamia e una inevitabil morte alle spalle, sol che avessero pensato alla fuga. La musica guerresca de' tamburi, delle trombe e de' timballi, soffocava le grida dello spavento e del dolore; e l'esperienza ha provato che l'effetto meccanico de' suoni rendendo più vivace la circolazione del sangue e i moti degli spiriti animali, produce sulla macchina umana una impressione superiore nell'efficacia all'eloquenza della ragione e dell'onore. L'artiglieria delle linee assalitrici, dalle galee del ponte, fulminava i Greci per ogni parte; e campo e città e assedianti e assediati vedeansi involti in mezzo a un nugolo di fumo che potea solamente essere dissipato o dalla liberazione, o dalla distruzione compiuta dell'Impero romano. Le singolari tenzoni degli Eroi della Favola e della Storia feriscono la nostra immaginazione e ne allettano; le dotte fazioni militari possono giovare a schiarire la mente e a migliorare un'arte necessaria, benchè perniciosa al genere umano; ma nella pittura di un assalto generale tutto è sangue, confusione ed orrore; laonde io disgiunto, per tre secoli e per l'intervallo di un migliaio di miglia, da una scena che andò priva di spettatori e di cui gli stessi attori non poteano formarsi un'idea esatta o compiuta, non mi accignerò a disegnarla.

      Se Costantinopoli non fece più lunga resistenza, vuole accagionarsene la palla, o il dardo che, per traverso alla sua manopola, trafisse la mano del Giustiniani, il quale, alla vista del proprio sangue, e tormentato dall'estremo dolore che la ferita gli producea, sentì mancare il proprio coraggio. Era il Giustiniani, e col braccio, e col consiglio, il più fermo baloardo di Costantinopoli; allorchè abbandonava il suo posto per andare in traccia di un chirurgo, l'instancabile Imperatore che di questa ritirata si accorse, il fermò: «la ferita, esclamava Paleologo, è lieve, il pericolo imminente, necessaria la vostra presenza; per quale strada contate voi ritirarvi?» – «Per quella strada che Dio ha aperta ai Turchi» il tremebondo Genovese rispose, e sì dicendo, attraversò rapidamente una breccia del muro interno; СКАЧАТЬ



<p>114</p>

Queste ali (Calcocondila, l. VIII, p. 208) non sono che una figura orientale; ma nella Tragedia inglese Irene, la passione di Maometto esce dai limiti della ragione e perfino dal senso comune.

Should the fierce North, upon his frozen wings,

Bear him aloft above the wondering clouds,

And seat him in the Pleiads' golden chariot —

Thence should my fury drag him down to tortures.

«Quand'anche l'impetuoso vento del Nort sulle sue ali addiacciate li portasse al di sopra delle nubi stupefatte, e li collocasse nel dorato carro delle Pleiadi, il mio furore li toglierebbe di là per consegnarli a nuovi tormenti».

Indipendentemente dalla stravaganza di questo discorso senza conclusione, noterò, 1 Che l'azione de' venti non opera al di là dell'atmosfera. 2 Che il nome, l'etimologia e la favola delle Pleiadi appartengono unicamente al popolo greco (Scholiast. ad Homer. Σ. 686, Eudacia in Ionia, p. 339; Apollodoro, l. III, c. 10; Heyne, p. 229, not. 682), e non han che fare coll'astronomia degli Orientali (Hyde, Ulugbeg. Tabul. in Syntag. Dissert., t. I, p. 40-42; Goguet, Origine des arts, etc; t. VI, p. 73, 78; Gebelm, Hist. du Calendrier, p. 73) studiata da Maometto. 3 Il carro delle Pleiadi non entrò nè nelle scienze dell'astronomia, nè nella favola: temo che il dottore Iohnson abbia confuso le Pleiadi coll'Orsa Maggiore, ossia col Carro, il Zodiaco con una costellazione del Nort.

Αρκτον θ’ ην και αμαξαν επικλησιν καλεουσι

Chiamò l'orsa anche carro.

<p>115</p>

Il Franza prende collera per queste acclamazioni dei Musulmani, non perchè adoperavano il nome di Dio, ma perchè vi frammetteano quello del Profeta. Il pio zelo del Voltaire è eccessivo ed anche ridicolo.

<p>116</p>

Sospetto assai che Franza si sia fabbricato a suo modo questo discorso il quale sa di predica e di convento siffattamente da indurre il dubbio se Costantino lo abbia mai pronunziato. Leonardo gli attribuisce un'arringa diversa, in cui si mostra più riguardoso verso gli ausiliari latini.

<p>117</p>

Questo contrassegno di umiltà, che la divozione talvolta ha suggerito ai principi giunti all'estremità della vita, è un perfezionamento aggiunto alla dottrina del Vangelo sul perdono delle ingiurie: è cosa più facile il perdonare novecentonovantanove volte, che il chiedere una sola volta perdono ad un inferiore.

<p>118</p>

Oltre alle diecimila guardie, ai marinai e ai soldati di mare, il Duca annovera dugencinquantamila Turchi, o a cavallo o fantaccini, che a questo assalto generale parteciparono.