L'ignoto: Novelle. Di Giacomo Salvatore
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Название: L'ignoto: Novelle

Автор: Di Giacomo Salvatore

Издательство: Public Domain

Жанр: Рассказы

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СКАЧАТЬ inzaccherate sulle quali sbattevano, molli e intrise di mota, le bocche larghe e logore de’ suoi pantaloni.

      Ora passava un carro funebre, di quelli che fanno continuamente la via di Foria e s’avviano al cimitero. Il de Laurenzi, curvo, con la mano alla falda del cappello, scivolò accanto all’enorme e nero carrozzone dalla cui cimasa dorata pareva che volessero spiccare il volo, ad ali spiegate, quattro polisarcici angioli di legno. La via, su quel transito, s’era fatta silenziosa, a un tratto. E a me parve che tanto da quel lento carro come da quell’uomo pur funebre si sprigionasse in quel punto una medesima espressione mortuaria il cui senso mi durò dentro per qualche secondo. Poi tutto si tolse dalla mia vista. Ma sopra di me e sull’animo mio, mentre m’avviavo alla porta del mio ufficio, pesava ancora, come l’ultimo segno di tanta malinconia, un cielo invernale plumbeo e greve. L’aria mi pareva satura d’una umidità uggiosa, e associata a tutta quella tristezza, a tutta quella miseria.

      – Spero che non mi chieggano di costui! – m’auguravo, salendo le scale della biblioteca.

      Come mi seccava di dover mentire, se mai! Una collera sorda, commista d’insofferenza e di sprezzo, mi sommoveva contro quest’uomo che intendeva piegarmi a una ripugnante complicità. Lui tenero dell’ufficio, della stanza paterna, della vita di quel luogo severo e nobile – lui, così svogliato, così cinico, così pronto a barattare la sua dignità e il suo amor proprio con una menzogna da scolare?

      Un uomo di quasi sessant’anni!

      II

      – Stazza l’aspetta – mi disse l’usciere di guardia alla porta, come mi vide – Ha domandato di lei più volte.

      – Stazza? E che vuole? Dov’è?

      – Nella stanza del direttore.

      Era uno degl’impiegati più anziani, un uomo eccellente, nel cui bonario sorriso io m’abbattevo ogni mattina, da quattro o cinque anni che frequentavo l’ufficio: il solo sincero sorriso che ritrovassi là dentro. Nella biblioteca Stazza era entrato a trent’anni; ora ne aveva sessantacinque suonati. Era ancora un colosso: nelle sue larghe mani poderose s’ammucchiavano pile enormi di libri, ed egli le reggeva e le portava qua e là senza alcuno sforzo visibile, con le braccia tese, lento, paziente, tranquillo. E come la pratica scienza del luogo ove quasi aveva vissuto tutta la sua vita ve lo ritrovava acconcio e disposto alle fatiche più improbe, egli non se ne stancava. Si conosceva illetterato, sapeva la insufficienza della sua cultura, meno che mediocre e null’affatto accresciuta neppure dalle più immediate e continue comunioni co’ sapienti compagni locali e con i lettori – e però badava, offerendo e adoperando come un valore succedaneo la forza delle sue membra poderose, a compensare questa sua grande pochezza spirituale.

      Di volta in volta, quando per cercare qualche libro mi capitava di entrare nella sua stanza – ov’egli non s’era fatto portare che una delle più vecchie e più umili scrivanie e due seggiole, una delle quali per riporvi il cappello – la bonaria semplicità di quell’uomo mi vi tratteneva per un pezzo. Era la mezz’ora in cui Stazza si concedeva un breve riposo. Facevamo quattro chiacchiere: io addossato a uno scaffale, con tra le mani il libro che mi occorreva, lui seduto alla sua scrivania, coi gomiti sulla tavola.

      Una volta, non so come, non ricordo più perchè, gli chiesi, sorridendo:

      – E lei crede che si possa aver passione per la biblioteca, noialtri?

      Stazza, serio, socchiuse gli occhi, con quel suo solito vezzo di quando voleva dir cose gravi.

      – Si possa? Si deve, caro collega. Guardi, io non ho moglie, non genitori, non fratelli. E per me la biblioteca è la moglie, è la madre, qualcosa come una famiglia. Penso, talvolta, che avrei avuto quasi il diritto di nascere qui, in una di queste stanze. Lei ride?

      – No, anzi, trovo naturale. S’intende, naturale per lei che non fa altro, che non conosce altro, perdoni.

      – Già, lei fa un’altra vita. E poi…

      Rimase in forse un momento. Poi soggiunse, con aria di sincera umiliazione:

      – E poi lei sa tante cose ch’io non so. E poi è giovane, e ha da pensare a tante altre cose.

      – No, non è questo. Dica che ciascuno non comprende se non quel che ritrova in se stesso.

      – Sarà. Ma glie ne voglio dire una: stanotte, per esempio, sa lei che cosa ho sognato? Il nostro gatto rosso che scorrazzava nella sala degl’incunaboli.

      Sorrideva, candidamente. In quel punto mi sentii quasi intenerito da quella innocenza pacata e soddisfatta, illuminata, come da un dolce riverbero dell’anima, da due limpidi occhi azzurrini. No, non ponevo, è vero, quell’inconscia virtù in relazione con tante altre della vita, più stimabili, più alte, e non mi pareva di doverne cavare ammaestramento: quella era una forma nulla, una espressione quasi brutale di accontentamento, l’indizio ignaro e pietoso d’una natura inferiore, tranquillamente passiva. Tuttavia quella felicità fortificante, d’un tonico effetto morale, pareva che mi volesse ammonire sulle cose della vita.

      O non avevo davanti a me un essere ch’io forse giudicavo troppo frettolosamente? La mia fantasia, disposta ad architettare, ora mi offeriva un più sottile giudizio intorno ad esso: io gli supponevo, adesso, una rinunzia progressiva, una riduzione continuata delle sue pretensioni, delle sue speranze, della sua libertà, e tutto questo mi sembrava mascherato da quel faccione rosso e pletorico, traspirante una giovialità e una contentezza fanciullesche e rischiarato da un sorriso perenne.

      Così, talvolta, quando potevo coglierlo in qualche momento in cui mi si mettesse tutto quanto sott’occhi, io facevo scorrere sulla superficie di quest’uomo il mio sguardo investigatore, e tentavo di penetrarla. Sapevo ch’egli era solo, che in casa non aveva che una vecchia serva, che l’abito suo di trovarsi sempre pel primo in ufficio e d’uscirne sempre l’ultimo – urtante metodicità per gli apprezzamenti d’un malato di nervi com’io sono – non s’era mutato una sola volta da quando Stazza era entrato in biblioteca. Costui dunque non aveva avuto gioventù, passioni, disillusioni, scoraggiamenti? Che cosa era nel passato di questo gigante rubicondo che violentava e superava tutte le leggi impulsive alle quali tre quarti dell’umanità va soggetta?

      Finii per arrendermi a quella impenetrabilità pacifica e indifferente. Ma un senso di tedio e di stanchezza mi allontanò dal mio compagno. Lo incontravo, ci salutavamo freddamente, ed io gli sfuggivo, accrescendo così, senza forse desiderarlo, il numero delle persone la cui comunione mi diventava, là dentro, ogni giorno più insopportabile.

      III

      Entrai nella stanza del direttore.

      Stazza, impiedi davanti alla costui scrivania, si voltò. Mi venne incontro e mi tese le mani.

      – Mille scuse! Ma io non potevo andarmene senza averla salutato. Addio, caro signore… Io me ne vado.

      Interrogavo con gli occhi il direttore e gli altri miei compagni, che circondavano Stazza, silenziosi.

      – Un fatto deplorevole – disse il direttore, rompendo il silenzio – L’ottimo nostro Stazza è stato collocato a riposo. Ci lascia.

      – Come! – esclamai – Così! Di punto in bianco?

      Stazza chinò la testa.

      Il direttore con la punta del tagliacarte additò un foglio sulla sua tavola.

      – M’arriva ora la comunicazione ministeriale. Le solite sorprese. СКАЧАТЬ