La principessa romanzo. Jarro
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Название: La principessa romanzo

Автор: Jarro

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ fece un gesto, come se fosse offeso dalle parole del suo avversario, che continuava con voce tonante:

      – E sottrarre un reo alla sua legittima pena! L’altro avvocato ribattè.

      Il presidente li lasciava fare: il tempo che costoro impiegavano a bisticciarsi, dava a lui agio di riflettere come uscire dalle sue perplessità e por termine all’interrogatorio della duchessa.

      Enrica, che avea ascoltato avidamente ciò ch’avea detto il vecchio avvocato della parte civile, si accorse che egli le porgeva modo di finire il suo interrogatorio, con una dichiarazione, corroborante le prove della reità di Roberto, e atta a toglier lei d’imbarazzo.

      Ella, dunque, a nuove domande del presidente, rispose che, dopo aver udito parlare dello scudiscio, che il conte di Squirace teneva in mano nel giorno in cui fu ucciso, rammentava una circostanza, dimenticata sin allora nella sua profonda agitazione.

      Aveva veduto, – soggiunse, – a una certa distanza, il conte di Squirace che alzava lo scudiscio sulla persona che aveva di fronte (non nominò Roberto) e la percoteva.

      L’avvocato della parte civile, il presidente sospirarono.

      Uno dei giudici era indifferentissimo a tutto: pensava sempre alle sue ristrettezze domestiche: alla moglie troppo spendereccia e ambiziosa, a’ figliuoli che logoravano troppo i vestiti, e il cui appetito non era proporzionato al suo gramo stipendio.

      Egli condannava, condannava sempre: gli pareva che l’ergastolo fosse una prigione assai più dolce di quella in cui egli viveva, fra i garriti, le esigenze domestiche, le privazioni e nell’ufficio le tirannie dei superiori.

      Avrebbe assoluto Roberto, se avesse avuto la certezza di far dispetto al presidente, che, secondo lui, col dar cattive informazioni sul suo conto, gli aveva impedito d’esser promosso.

      Il più giovane e il più dotto magistrato, di cui già abbiamo discorso al lettore, il conte Guicciardi, non era ancor convinto della reità di Roberto: vedeva sempre in questo processo molti e molti punti dubbiosi.

      La prudenza, o, diremo meglio, la pusillanimità, gli impediva di studiarsi a chiarirli con una certa franchezza, durante il giudizio.

      Prima di licenziare Enrica, il presidente chiese a Roberto se nulla avesse a domandare alla testimone.

      Enrica aveva il batticuore.

      – Nulla! – rispose Roberto con un tuono di voce, che Enrica non doveva più dimenticare, e che forse doveva riudire in un momento per lei terribile.

      Enrica fu licenziata.

      Non avea mai rivolto lo sguardo a Roberto: nè si volse punto a lui, nell’istante in cui essa usciva dalla sala, singhiozzando altamente col fazzoletto in sugli occhi, attrice perfetta, come tutte le donne viziose, cui l’inganno è potenza, ragione di vita.

      Non ebbe un pensiero della magnanimità del giovane: non uno slancio d’ammirazione pel suo contegno nobilissimo: al contrario: ella titubava sempre ch’egli aggiungesse qualche parola compromettente: aspettava ansiosa la condanna.

      Fin che questa non fosse venuta, ella temeva nuovi richiami, temeva nascessero viluppi insidiosi per lei. Non si curava d’altro. La falsa accusa, la calunnia contro Roberto?

      Per lei non era nè calunnia, nè falsa accusa.

      Che il conte di Squirace fosse caduto nel precipizio, per un movimento da lui fatto nella mischia, poco significava: Roberto l’avea sospinto a quel movimento; dunque Roberto era l’assassino del conte di Squirace. E poi egli non avea minacciato di morte anche lei?

      Se il conte non fosse sopraggiunto, o ella avrebbe dovuto fuggir con Roberto, o sarebbe stata inabissata, com’egli le avea proposto, fra i gorghi del mare, ov’era stato gettato il conte.

      Ella doveva la vita, l’onore alla cautela (la chiamava così) spiegata nell’invitar il conte a trarre in suo aiuto.

      Di tal guisa, acquietava la triste sua coscienza; poichè anche i perversi hanno una coscienza, foggiata a lor modo.

      E non le bastavano tutte le scuse, che già abbiamo addotte; un’altra ne allegava a sè stessa.

      Roberto avea indegnamente abusato di lei: avea mancato al suo dovere di soggezione verso il duca: a forza l’avea voluta a sè, probabilmente, anzi sicuramente, ella arrivava a persuadersi, con lo scopo di rendersi padrone delle sue ricchezze: diventar l’erede del duca. Ardito e scellerato pensiero!

      Quindi, si diceva, egli avea commesso, non uno ma più delitti, e il suo contegno assegnava non a nobiltà d’animo, ma a un tardo rimorso.

      Costui dovea aver compreso che il sacrificio della vita era poco alla espiazione che gli spettava.

      Nell’animo di Enrica, Roberto era ormai un gran delinquente, ed essa avea reso a tutti un segnalato servizio, sbarazzandoli da un uomo sì violento!

      Chiuso il processo, i giudici si erano stretti in Camera di Consiglio per deliberare sulla sentenza.

      E la discussione riuscì assai vivace.

      Lì, fra’ suoi colleghi, il conte Guicciardi volle parlare aperto.

      Non sosteneva l’assoluta innocenza di Roberto, ma quante lacune – disse – in questo processo!…

      – Ammettiamo pure, – osservava, – il giovane marinaio sia stato provocato dal conte di Squirace. Sa la Corte il motivo di tale provocazione?… Che rapporti potevano esservi fra il gentiluomo e il figlio di Cicillo Jannacone?…

      Come mai la duchessa, sì debole, sì ammalazzata, che avea appena partecipato alle feste in onore del padre, si era di tanto allontanata dalla sua villa e, sola, si trovava nel punto più remoto del parco? In che modo si erano incontrati proprio lì l’accusato ed il conte? Certo non casualmente....

      L’accusato, mi direte, – aggiungeva a’ colleghi, – non ha voluto dare spiegazione alcuna, si è chiuso in un assoluto silenzio: non ha neppur consentito di parlare col suo avvocato, ha rifiutato di scegliersi altro avvocato che quello designatogli, per ufficio, dalla Corte.... Vedete voi in ciò un indizio di reità?… Io, egregi colleghi, sarei allora di parere diverso dal vostro.

      Un reo, nega, attenua, si difende: qui abbiamo un uomo che, dinanzi al patibolo, nella probabilità di una condanna a morte, non cerca alcun espediente per sfuggir a tal fine; anzi vi va incontro quasi volenteroso. E voi non scorgete nulla d’insolito in questo uomo che tace? Ricordate ch’egli è un valoroso: ricordate che la sua condotta fu sino ad oggi esemplare, anzi fu, in certe occasioni, eroica: rammentate le testimonianze de’ suoi camerati che ci vennero a fare il suo elogio, commossi, piangenti. Ah, miei cari, non ci troviamo innanzi un volgare assassino! Dobbiamo piuttosto giudicare un fatto molto misterioso. Mancano le prove dell’innocenza: non abbondano quelle della reità, se si scrutina bene. Non è la prima volta che un soldato, un uomo d’onore e cavalleresco, tace, accetta la responsabilità di un delitto, infama il suo nome per salvar l’onore di una donna, per un motivo di suprema delicatezza....

      – Il silenzio può essere il ripiego di un uomo abilissimo, appunto per indurre in questa credenza, – disse il presidente.

      – Ma non quando si corre il rischio di una sentenza di morte! – esclamò l’altro magistrato, che condannava quasi sempre, lieto di contraddire al presidente.

      Vi fu un breve silenzio.

      Il СКАЧАТЬ