Conferenze tenute a Firenze nel 1896. Various
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Название: Conferenze tenute a Firenze nel 1896

Автор: Various

Издательство: Public Domain

Жанр: История

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СКАЧАТЬ La république n'a pas besoin de savans.[39]

      Mai non erasi veduta una folla tanto feroce e così abbietta quanto e come quella che aveva nelle mani il potere della Francia. Beugnot racconta che quando Bailly, il venerabile sindaco di Parigi, fu consegnato alla Conciergierie nelle mani dei gendarmi, questi se lo sballottavano l'uno all'altro dicendo: ecco Bailly, – prendilo il tuo Bailly, – e ridevano come cannibali e gli davano dogli spintoni quasi a farlo cadere perchè il grande filosofo si conservava pacato.

      La ghigliottina fu alzata su di un mucchio di immondizie. A mezzogiorno del 12 novembre 1793 Bailly salito sul carro fatale, fu condotto al Campo di Marte. Mentre aspettava che si mettesse in ordine la ghigliottina, un insolente gli disse per scherno: Tu trembles, Bailly.Mon ami, j'ai froid, rispose con dolcezza la vittima, e furono le sue ultime parole.

      La tradizione racconta che Mesmer incontrò per l'ultima volta Bailly sul carro che lo conduceva al Campo di Marte. Aveva le mani legate dietro la schiena e la plebe di Parigi lo insultava per la strada. Mesmer ebbe il coraggio di levarsi il cappello e di salutarlo rispettosamente.

      Salutiamo anche noi la memoria di Mesmer. Il suo nome sarà ricordato sempre fino a che vi saranno dei neuropatici, degli isterici, delle persone nelle quali ad un cenno può venire sospesa la volontà e la coscienza, benchè abbiano l'aspetto di essere sane.

      Se è vero come credono molti che va lentamente accumulandosi nella nostra razza la degenerazione del sistema nervoso – il nome di Mesmer sarà più venerato nei secoli futuri.

      L'alcoolismo, l'abuso degli eccitanti, il desiderio di sensazioni sempre più forti, lo strapazzo del cervello, la trascuranza della educazione fisica, preparano colla eredità patologica nuove generazioni, nelle quali sarà maggiore il numero di quelli che passano facilmente dalla veglia in uno stato di sonnambulismo improvviso.

      Ma questi saranno sempre una minoranza minima, e nel suo complesso la nostra razza diventerà più savia e più robusta.

      Se la lotta per l'esistenza sarà più accanita, se saranno più disastrosi gli effetti dell'esaurimento e più micidiali lo battaglie del pensiero, si accrescerà la falange dei meno atti, dei neurastenici, dei degenerati, di quelli che cadranno sopraffatti dalla fatica, esaltati dalla debolezza, come i soldati che un grande esercito lascia indietro nelle marcie forzato sulla strada trionfale della vittoria.

      Per questi, e per tutti gli altri che non avranno coltura, Mesmer rimarrà un idolo od un taumaturgo.

      NAPOLEONE

CONFERENZADIAnton Giulio Barrili

      I

      La notte dopo il 12 aprile del 1796, un giovane comandante d'esercito, passata la Bormida con una vanguardia di ottomila Francesi, veniva ragionando in certa sua forma tra imperiosa e familiare con uno di quei valligiani, tolto poc'anzi per guida fino alla gola di Plodio. Tra l'altro ch'egli disse, queste parole rimasero scolpite nella mente dell'ascoltatore, preso di molta ammirazione e già disposto a gran fede: “Ci sono in Italia duecentomila poltroni; ma io li impiegherò.„ Parlava facilmente italiano, il generale francese, perchè era nato italiano di terra e di stirpe; parlava volentieri italiano in quell'ora, perchè, girate appena le Alpi sul primo nodo dell'Appennino, amava trarne il buon augurio con suoi fratelli di sangue, sperati amici e cooperatori di vittoria. Diceva ancora di non esser venuto a guerreggiare i popoli, ma i re, nemici dei popoli; non l'Italia schiava, ma l'Austria, tiranna in casa altrui, secondo il mal uso degli stranieri, sempre calati sulla bella penisola, come in campo aperto alle loro contese di primato europeo.

      Duecentomila poltroni da impiegare! A non vederci altro che tanti infingardi, contenti dell'ozio a cui si sentivano condannati, i poltroni d'Italia erano certamente di più. Ma egli, giunto tra noi a capo di trentaseimila combattenti, egli che più tardi, nel colmo della potenza sua, non doveva averne più di cinquecentomila, nè mai, di tal numero, oltre i due terzi raccolti sotto la mano, poteva bene restringersi allora in quei modesti confini, e non chiedere all'Italia, sua madre, più di duecentomila soldati. Era già molto, e per il tempo e per l'uomo. Ancora egli non aveva fatto altro che vincere, dodici ore innanzi, sulle alture di Montenotte; e Montenotte non doveva essere una giornata decisiva se non dopo i felici combattimenti di Dego e di Millesimo. Pure, sceso da quelle vette onde non era spazzato intieramente il nemico, e dal ponte di Càrcare conducendo all'ostacolo di Cosseria la divisione Augereau, egli si sentiva già tutto compreso del suo alto destino. Un colpo di fortuna lo aveva innalzato a Tolone; un altro gli aveva fruttato il favore del Direttorio, per le nozze con la vedova Beauharnais, amica della Tallien, la bella onnipotente del giorno. Il caso è uno stupendo artefice di eventi; ma a patto che dove passa l'occasione, sua frettolosa figliuola, si trovi in agguato chi sappia afferrarla pel ciuffo. E molti aspettano, che non la vedranno passare; alcuni l'acciuffano, che non sapranno tenerla. Audaci, ma senza il valore che giustifichi l'audacia: e meglio per essi che non fossero usciti dalla oscurità; tanto è vergogna aver tentato e non vinto.

      Non così egli, venuto alla sua ora in quell'esercito d'Italia che da quattro anni facendo pochi fatti romoreggiava sempre intorno ai confini. A Nizza, trovò laceri e scalzi, senza cavalli, senza vettovaglie, trentaseimila Francesi; nè egli portava più che duemila luigi con sè. Averne quattro per testa, fu gala a giovani generali, ch'egli doveva far poi marescialli, principi e duchi, caricandoli d'oro, di feudi, perfin di corone. Ai soldati nulla; ma prometteva un paradiso terrestre, disteso sotto i loro occhi nella gran valle del Po, passando, già s'intendeva, sui ventiduemila piemontesi del Colli e sui trentaseimila Austriaci del Beaulieu. L'obbedirono; e passarono ancora sui sessantamila del Wurmser, poscia sui sessantamila dell'Alvinzy, vincendo dal Tanaro al Tagliamento, dissipando tutte le resistenze, suscitando repubbliche, abbattendo principati, o ricevendoli in alleanza, che era principio di soggezione. A questo vincitore, che non in tre mesi, come aveva promesso nel partir da Parigi, ma in due era giunto a Milano, e in dieci aveva cacciata l'Austria dalla penisola italiana, mandando alla Repubblica francese il primo tributo ch'ella avesse ancor ricevuto di milioni e d'opere d'arte; a questo vincitore, costretto a perder gente in ogni vittoria, non si spedivano aiuti se non di poche migliaia d'uomini, non si consentiva il chiesto collegamento dell'esercito del Reno: ond'egli, a non arrisicare il guadagnato, e tuttavia con audaci mosse sulle Alpi Noriche minacciando di correr su Vienna, costrinse il nemico ai patti preliminari di Leoben; e il 17 ottobre 1797, a Campoformio, con larghezza inaudita, all'Austria vinta in quindici giornate campali e in più di sessanta fazioni minori, cedeva lo Stato Veneto, dai confini della Dalmazia alla linea dell'Adige. Il 9 dicembre era a Parigi, per rientrare nella vita privata. Già troppo grande, e troppo fortunato, lo mandarono presto in Egitto, per colpir l'Inghilterra sulla via delle Indie, o piuttosto per disfarsi di lui. Fu sorte che non gli lesinassero gente, nè sussidii navali. Ebbe quarantamila combattenti, tredici vascelli di linea, a cui potè unirne due veneti da sessantaquattro cannoni, sei fregate pur venete, e otto francesi, settantadue legni minori e quattrocento trasporti, con diecimila marinai. Così, mentre la Francia rimasta senza di lui si disponeva a perdere quanto aveva per lui guadagnato di qua dalle Alpi, egli andava a vincere, come Cesare, in Egitto, e con la molteplice operosità del velocissimo ingegno ordinava quella famosa spedizione scientifica, onde ancora il suo nome è collegato al rifiorire degli studi orientali. Se l'armata del Brueys vinceva ad Aboukir, com'egli alle Piramidi e al monte Tabor, qual mutamento nel mondo! Segno che l'occasione era passata anche laggiù, lungo le foci del Nilo; e l'ammiraglio non ebbe, come il generale, la virtù di afferrarla.

      Perduto il buon punto sul mare, tornava inutile, o quasi, proseguir l'impresa per terra. Risoluto il ritorno dopo le tristi nuove del continente (e fu altra fortuna che l'ammiraglio nemico gli mandasse, quasi a scherno, i pubblici fogli), trafugatosi per prodigio alla crociera inglese, giunto inaspettato a Parigi, fatto il colpo del 18 brumale contro l'Assemblea dei Cinquecento, non più servitore ma arbitro e console, lascia ai due colleghi del triumvirato il governo, e con arditezza di concepimento non altrimenti superata che dalla celerità dell'atto, СКАЧАТЬ



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E. Grimaux, La mort de Lavoisier. Revue des deux Mondes, 15 février 1887, pag. 884.