La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi
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Название: La battaglia di Benvenuto

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ per l’amore che hai per la vita… taci… Il tuo ufficio contro questa creatura terminò col colpo che le tolse la vita. Io ti ho comandato essere il suo assassino, non già il suo detrattore. – Basta. Io l’ho punita come colpevole, ora amo fingermela innocente.»

      «Allorchè da giovanetto studiava le leggi nella Università di Federigo, intesi, Conte, che chi vuole il più deve necessariamente volere anche il meno. Mi deste il diritto di ricercare nelle sue viscere, – e vorrete negarmi adesso quello di ricercare nella sua fama?»

      Il Conte di Caserta si accostò alla parete accennando cadere; lo sostenne subito il Conte di Cerra che aggiunse:

      «Oh! di ciò dunque non si faccia più parola. Messere, se alcuna cosa può in voi la preghiera di un fedele servitore vostro, abbandonate questi luoghi spaventosi, date alla terra quello che appartiene alla terra, – le reliquie dei morti. Voi sapete se adesso sia più che mai necessario star vigilanti, e avere il senno ben retto… In questo modo operando, i vostri disegni di vendetta contro colui, temo forte non vadano a finire col diventare voi stesso folle.»

      «Ah! – Molto vi preme la mia vendetta? Molto la conservazione del mio intelletto? Gran mercè!… Gran mercè! Cerra, io ve l’ho detto più volte, siete sottile, e frodolento, quanto lo spirito del male; pure gli accorgimenti vostri tornano inutili con me: io da gran tempo vi conosco; deponete la lusinga d’ingannarmi; non vi date studio di parlare con tant’arte. Voi temete che io perda il senno, – e lo temete per me? Lo splendore di vostra casa era decaduto, e i tempi presenti non concedevano sollevarsi con pubbliche o con private virtù. – —Voi non pertanto la riponeste nell’antico splendore. – Io vi ho fatto Gran Camerlingo del Regno, e ricco, e potente; – tristo eravate già troppo per non osare incolparmi sfacciatamente delle vostre scelleraggini. Voi temete ch’io perda il senno, – e lo temete per me? – E nessuna cura vi stringe, che io nella piena dell’affanno sveli con un solo detto tal cosa, per la quale le nostre teste cadrebbero sotto la scure del carnefice? E nessuna, ch’io, divenuto soggetto di compassione e di riso, non abbia più facoltà di disporre in favor vostro di quei beni, che adesso non posso più lasciare al mio figlio, perchè voi gli avete portato la morte fin colà dentro dove la natura ha posto il luogo acconcio all’opera della vita?

      «Conte, che vi giova affannarvi a conoscere il cuore dell’uomo? Forse i vostri dubbii sono veri, forse anche falsi. – È prudenza questa, logorare la ragione e il tempo in tale arte, della quale il dubbio è il frutto meno amaro? Dio non volle darsi a conoscere agli uomini, e si avvolse col mantello dei cieli profondi. Volete voi penetrare i cieli, e investigare i pensieri di Dio? e, volendolo, lo potrete? La natura non ha voluto che il cuore nostro fosse manifesto, e lo ha avvolto dentro un viluppo di ossa e di carne. Qualunque più temerario pensiero della vostra anima immortale potrà mai, Conte di Caserta, trapassare questo riparo di creta? Contentatevi dunque delle opere, e non vi curate dei sentimenti. Tutto questo discorso io ho voluto tenervi, onde non già abbiate di me migliore opinione, ma perchè voi l’abbiate minore di voi quando saprete che il vostro figliuolo vive.»

      Il Conte di Caserta divenne pallido come la morte, vacillò, e stette lungo tempo pensoso; poi si fece a lenti passi verso il Cerra, lo prese pel braccio con la sinistra, e con la destra gli fece tale atto, che la favella, quel nobile attributo che distingue l’uomo da ogni altro animale, sembrò quasi sdegnosa di profferire. Il Conte di Cerra, per quanto visibilmente si sforzasse, non potè di tanto reprimere quel suo riso, che due o tre volte non gl’increspasse la faccia; nondimeno si contenne, e parlò:

      «E che, Caserta? – Tremate voi così presto essere ridivenuto padre? Non avete voi detto ch’egli è figlio vostro? Or dite, via, che io l’ho spento nelle viscere materne, e che la ingordigia di acquistare conduce i moti dell’anima mia! Presuntuoso che siete, rinunciate alla conoscenza del cuore umano!»

      «Egli vive! Tu lo hai detto… dunque tu mi hai tradito? Va, Anselmo, va per l’amore di Dio, uccidilo avanti che la notte sparisca… prevaliti di queste ore di notte che avanzano… egli… egli è un monumento di peccato… egli non è mio figlio… non è mio figlio… bisogna che muora.»

      «Bisogna che viva, Conte di Caserta.»

      «Da quando in qua ricusa Anselmo di fare il sicario? Lo conoscerò, lo ucciderò io stesso in questa medesima notte.» – E così dicendo si precipitava verso la porta: gli si parò davanti il Conte di Cerra, e gli disse ad alta voce: «Importa che voi mi ascoltiate.»

      Qui cominciava tra loro un velocissimo conversare in tanto basse parole, che appena gli avrebbono potuti sentire alla distanza di quattro o sei passi; ma frequenti e feroci erano i gesti, terribili i volti, romorosi i giuramenti. Alfine parve tutto convenuto tra loro; allora il Conte di Cerra, giubbilando, con quella sua orribile contorsione di volto, domandò: «Messere, che parvene di questo mio ritrovato?»

      «E’ parmi cosa» rispose il Caserta «che l’età presenti e le future malediranno, – cosa che il narratore dei casi antichi schiverà riporre nella sua cronaca come troppo favolosa; – cosa in somma che lo stesso Lucifero non avrebbe potuto immaginare maggiore nella sua stessa potenza del male. Il tradimento, e il parricidio, commesso per amore di vendicare il padre, era un pensiero degno di meditarlo il Cerra.»

      «E di ascoltarlo il Caserta.»

      Dopo queste parole il Conte di Caserta accennò ad Anselmo di andare.

      Questi, curvata la persona in atto ossequioso, partiva.

      CAPITOLO QUINTO. INGANNO

      Ne diè Natura, è vero,

      La lingua perchè serva

      A palesar del cuor gli occulti sensi;

      Ma l’artificio uman così l’adopra,

      Che non gli manifesta, anzi gli asconde;

      E ben io so ch’è folle

      Chi mirar crede entro la voce l’alma.

Cleopatra, tragedia del Cardinale Delfino Patriarca d’Aquileia.

      E se la vita fu bene, perchè mai ci vien tolta? – E se la vita fu male, perchè mai n’è stata concessa? – Oh! l’ora della morte travaglia d’ineffabile angoscia. Io, che, per felice disposizione della natura, posso senza dolore e senza gioia guardare la contesa della distruzione e della esistenza, ho considerato l’uomo spento col ferro: egli aveva i capelli ritti… le pupille terribili… la bocca in atto di profferire una minaccia… tutte le membra disposte a disperata difesa. Ho considerato l’uomo spento coll’arme da fuoco: i suoi occhi erano languidi… il volto abbattuto, come quello dello estenuato da lungo patire. Finalmente ho considerato la forza della malattia mortale sul giovane, e sul provetto: in quello la vita lottò con vigore proporzionato alle sue forze, e gli ultimi suoi istanti furono atrocemente dolorosi; in questo, di cui l’alito avrebbe a mala pena potuto muovere una piuma, e appannare il cristallo accostatogli alla bocca, la morte parve imperversare meno furiosa, anzi calare lieve lieve la mano ghiacciata a stringergli il cuore. – Ma e nello spento per ferro, e nello spento per fuoco, nel giovane, e nel vecchio… in tutti ho osservato il gravoso affannarsi dell’agonia… il ravvolgersi degli occhi desiderosi della luce… il brivido celerissimo a fiore di pelle precursore della cessazione del moto… la grossa lagrima distillata dal cervello gocciare giù per la pallida guancia… tutte le membra contrarsi… raccogliere coll’ultimo anelito in un sul punto la vita, e… con un sospiro il cuore ha cessato di battere: l’eterna immobilità inceppa le fibre: – l’uomo diventò tutto materia? – Oh! è amaro, è amaro il punto della distruzione della vita.

      E pure più amaro parve a Rogiero quello in cui, ascoltando i passi di persona che si dirigeva СКАЧАТЬ