Capitan Tempesta. Emilio Salgari
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Название: Capitan Tempesta

Автор: Emilio Salgari

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ intanto, spalleggiate dalla formidabile artiglieria che batteva fieramente le cadenti mura di Famagosta, s’avanzavano sempre imperterrite, aizzate senza posa dalle urla dei muezzin.

      – Uccidete! Sterminate! Il Profeta e Allah ve lo comandano!

      I giannizzeri si erano messi alla testa e quei terribili soldati si spiegavano sempre più nella pianura, trascinando all’assalto gli albanesi e gli irregolari dell’Arabia e dell’Asia Minore.

      I minatori che li precedevano, non perdevano il loro tempo. Approfittando della confusione e dell’oscurità, si spingevano con pazza temerità sotto i bastioni e sotto le torri e, non badando a saltare in aria, facevano scoppiare barili di polvere per aprire delle brecce che permettessero alla fanteria di spingersi all’assalto.

      Era specialmente contro il bastione di San Marco che s’accanivano maggiormente, minandolo da tutte le parti. Spaventevoli detonazioni si succedevano senza tregua, sconquassando la rivestitura esterna e facendo crollare le merlature.

      Ciononostante i pochi figli delle lagune venete e delle scogliere dalmate non cessavano il fuoco, decimando crudelmente le colonne degli infedeli, i quali seminavano la pianura di morti e di feriti.

      Impavidi fra la pioggia di macigni, scaraventati in aria da quelle esplosioni e fra quel rovinio di pietre, le quali sfuggivano sotto i loro piedi ad ogni scossa, e fra quel tempestar continuo di frammenti di ferro e di proiettili, di fionde e di frecce incendiarie, scagliate dai balestrieri dell’Asia Minore, aspettavano sempre l’impeto delle scimitarre infedeli, dietro i loro scudi.

      Il frastuono orrendo aumentava di minuto in minuto. Alle urla feroci dei mussulmani rispondevano in lontananza i pianti e le preghiere delle donne e le grida dei fanciulli. Nell’aria satura di fumo e di polvere risuonavano, fra il fragor dei bronzi tuonanti, le campane che chiamavano a raccolta gli abitanti, se ancora ve n’erano entro le case già fiammeggianti.

      Le masse dei barbari s’avanzavano, lente, pesanti, possenti, continuando a svolgersi nella pianura. A migliaia e migliaia salivano, verso le scarpe dei bastioni, come una marea irrefrenabile, mentre le mine rombavano cupamente, lanciando fra le tenebre guizzi sinistri di luce sanguigna o sulfurea che subito si spegnevano.

      – Allah! Pel Profeta! Morte ed esterminio ai giaurri! – ruggivano centomila voci, coprendo il rimbombo delle tuonanti artiglierie.

      Già i giannizzeri erano giunti dinanzi al bastione di San Marco e si preparavano ad assalirlo, quando un lampo vivissimo ruppe le tenebre, seguito da uno scroscio spaventevole. Una mina che non aveva preso fuoco, incendiata da qualche frammento di pietra infuocata o da qualche freccia incendiaria, era scoppiata squarciando a metà la cinta.

      Un nembo di macigni s’alzò per l’aria storpiando od uccidendo un gran numero di giannizzeri, le cui colonne si erano subito ripiegate confusamente e cadde anche sul bastione occupato dai guerrieri veneti. Capitan Tempesta che si trovava presso uno dei merli, pronto a contrastare il passo agli invasori alla testa dei suoi valorosi schiavoni, fu rovesciato di colpo da un macigno, che lo aveva colpito al lato destro della corazza.

      El-Kadur, che stava qualche passo indietro, vedendo la sua signora lasciarsi sfuggire lo scudo e la spada e stramazzare al suolo, come se fosse stata fulminata, si era precipitato innanzi, mandando un grido di spavento e d’angoscia.

      – L’hanno ucciso! L’hanno ucciso!

      La sua voce si perdette fra il frastuono orrendo che soffocava perfino la voce possente delle artiglierie. I giannizzeri montavano in quel momento all’assalto con urla frenetiche e nessuno poteva occuparsi della disgraziata e valorosa giovane, nemmeno il signor Perpignano che già lavorava di spada alla testa degli schiavoni.

      El-Kadur, fuori di sè, afferrò la padrona, se la serrò contro il petto e discese a precipizio giù dal bastione, avviandosi a corsa sfrenata verso la città, incurante delle palle e dei frammenti di pietra che grandinavano nelle vie e sui tetti delle case.

      Dove fuggiva? Lui solo lo sapeva.

      Seguì per cinque o seicento metri la cinta interna, poi si arrestò sotto una delle vecchie torri della città, la cui base era già stata rovinata dalle mine. Ammassi di macerie s’alzavano dovunque e sulla cima di quella massiccia costruzione tuonavano due colubrine.

      El-Kadur s’arrampicò su quei massi accumulati confusamente, che ad ogni colpo di cannone franavano e s’introdusse in una stretta apertura che pareva menasse in una casamatta ormai abbandonata.

      S’avanzò a tentoni, tenendosi sempre stretta la giovane duchessa, poi la depose a terra delicatamente.

      – Anche se Famagosta cadesse questa notte, nessuno scoprirà il cadavere della mia padrona, – mormorò.

      Brancolò per alcuni istanti fra le tenebre, poi estrasse dalla sua borsa un acciarino e un pezzo d’esca e fece cadere parecchie scintille finchè ottenne una fiammella.

      – Non hanno vuotato la casamatta, – disse. – Troverò l’occorrente.

      Si diresse verso un angolo dove si scorgevano confusamente delle casse e dei barili ammonticchiati alla rinfusa, frugò per qualche secondo e levò una torcia che subito accese.

      Si trovava in una specie di sotterraneo, scavato alla base del torrione e che pareva avesse prima servito di deposito alla guarnigione dell’attiguo bastione. Infatti, oltre le casse ed i barili contenenti armi e munizioni, vi erano dei materassi, delle coperte, delle giare contenenti forse dell’olio o del vino o più probabilmente delle olive, che costituivano ormai quasi l’unico nutrimento degli assediati.

      L’arabo, senza preoccuparsi dei colpi di colubrina che echeggiavano sopra la sua testa e che si ripercuotevano nella casamatta con un rombo assordante, piantò la torcia in un crepaccio del suolo e depose la duchessa su un materasso.

      – È impossibile che sia morta singhiozzò. – No, una signora così bella e così valorosa non può morire.

      Levò il mantello che avvolgeva la duchessa e guardò la corazza. Verso il lato destro si vedeva una profonda ammaccatura, con un buco nel mezzo da cui usciva un filo di sangue. La scheggia di pietra o forse di ferro, lanciata con inaudita violenza, aveva spezzato perfino l’acciaio. Slacciò con infinite precauzioni la corazza e scorse subito, un po’ sotto la spalla, una ferita profonda che sanguinava abbondantemente.

      – Purchè non sia entrato nelle carni qualche frammento del proiettile, la mia padrona non morrà, – mormorò l’arabo. – Il colpo deve essere stato però violentissimo.

      Stracciò il manto della duchessa che era di lana finissima e leggera, facendo delle bende, sollevò parecchie giare che erano coperte e trovatane una piena d’olio vi bagnò uno straccio. Fasciò delicatamente la ferita per arrestare il sangue, poi soffiò a più riprese, a tutta forza, sul volto di Capitan Tempesta per farlo tornare in sè.

      – Sei tu, mio fedele El-Kadur? chiese ad un tratto la duchessa, aprendo gli occhi e fissandoli sull’arabo.

      La sua voce era fioca ed il suo bel viso pallidissimo, bianco come un cencio di bucato.

      – Vive! La mia padrona vive! – esclamò l’arabo – Ah! Signora, ti avevo creduta morta.

      – Che cos’è avvenuto, El-Kadur? – riprese la duchessa, – Non ricordo più nulla… dove siamo… chi spara presso di noi? Non odi questi rombi che mi pare mi spezzino la testa?

      – Siamo in una casamatta, signora, al sicuro dalle palle dei turchi.

      – I СКАЧАТЬ