Scherzi Dell'Amicizia. Marco Fogliani
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Название: Scherzi Dell'Amicizia

Автор: Marco Fogliani

Издательство: Tektime S.r.l.s.

Жанр: Зарубежное фэнтези

Серия:

isbn: 9788835432531

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СКАЧАТЬ Piero andò in giardino a giocare coi gatti. Si ricordava che ce n’era più d’uno. Voleva toccarli ed accarezzarli, ma quelli scappavano e si nascondevano, un po’ come fanno tutti i gatti coi bambini. Piero trascorse anche con loro un tempo interminabile, fino a riuscire prima a convincere il più piccolo di loro a lasciarsi accarezzare, e poi finché non fu egli stesso ad annoiarsi di accarezzarlo.

      Quando rientrò in casa, nonna Pina stava seduta sulla sua poltrona a dondolo davanti al televisore, sferruzzando con un lavoro a maglia.

      “Non è che ci sono altri giochi?”, le chiese Piero. “Di quelli di Giulio, voglio dire. Mi sono dimenticato di chiederglielo.”

      “Se vuoi possiamo richiamarlo. Ma … aspetta, vieni qui che ti faccio vedere una cosa”. Piero le si avvicinò incuriosito.

      “Vuoi che ti insegni un trucco per far colpo sulle ragazzine? Sempre che far colpo sulle tue coetanee ti interessi. È un metodo che funziona sempre, parola mia: sono stata ragazzina anch’io, lo sai. E poi ti assicuro che funzionerà anche quando sarai più grandicello.”

      Piero annuì, e sembrava molto interessato.

      “Non c’è nulla che attragga le femmine come vedere un maschio che fa la maglia. Magari all’inizio qualcuna può riderci un po’ sopra; ma poi, se vedono che la sai fare davvero, ne rimangono estasiate, in ammirazione, e ti tengono in grandissima considerazione. Vuoi che ti faccia vedere come si fa? Tanto prima di cena abbiamo ancora tanto tempo.”

      Piero fece cenno di sì, incuriosito.

      “Bene. Allora oggi comincio a insegnarti i rudimenti dell’uncinetto. Ma prima … dimenticavo una cosa: non è che sei uno di quei bambini che va a scuola anche il sabato, ed hai dei compiti da finire?”

      “No, no: domani niente scuola, io.”

      “Va bene, allora prendi questo uncinetto e cominciamo a vedere come si impugna”.

      Così nonna Pina cominciò quella singolare lezione. Ricordava di aver provato ad insegnare a fare a maglia anche a Giulio, qualche anno prima, ma evidentemente a quel tempo suo nipote era troppo piccolo, e probabilmente le ragazzine ancora non gli interessavano abbastanza. Invece Piero seguì i suoi insegnamenti con una certa attenzione.

      La lezione e l’esercitazione pratica durarono a lungo. A un certo punto, quando lei lo vide stanco, distratto e che faticava a proseguire, gli disse:

      “Adesso riposati un po’, che poi devi darmi una mano in cucina. Mi devi aiutare a preparare le tagliatelle. Sentirai che buone, le tagliatelle alla maniera di nonna Pina. Sono famose in mezzo mondo. E se impari a farle, poi ti puoi rivendere anche quelle.”

      Piero, che conosceva il famoso motivetto a cui nonna Pina aveva fatto allusione, fece cenno di sì con la testa; poi tirò fuori il suo cellulare e si immerse in una serie di partite col suo gioco preferito. Finché, come promesso, non aiutò nonna Pina in cucina a preparare la cena.

      Ecco, così è andata che quella volta Piero incontrò nonna Pina. E da allora in poi ogni venerdì pomeriggio, finché essa fu in vita, le sue visite a casa di lei divennero una bella e costante abitudine.

      Tra tutti i nuovi parenti che Piero avrebbe acquisito di lì a poco - prima un secondo papà e poi una seconda mamma, e con loro dei nuovi fratelli e sorelle – nonna Pina fu senz’altro quella più affettuosa e simpatica. Gli insegnò molto bene tutti i suoi segreti, con la maglia ed in cucina, che effettivamente riuscirono a fargli avere un certo successo con le ragazze; una delle quali, per lui indubbiamente la migliore del mondo, divenne poi la compagna della sua vita; con cui visse poi per sempre felice e contento.

      IO E AUGUSTO, I DUE INVISIBILI DELLA CLASSE

      Alle scuole superiori mi trovai decisamente male. Non per colpa dei professori, le cui valutazioni mi sembravano tutto sommato eque, almeno per quello che mi riguardava. Non sembravano influenzate né dalla mia nazionalità né dal fatto che fossi musulmano. Del resto non so se fossero fatti conosciuti a tutti. La mia diversità non si evinceva immediatamente dalla carnagione, ma neanche dal mio nome e cognome, Stefan Moffat, per gli amici Stefano.

      Chi mi trattava male erano i miei compagni. Almeno così mi sembrava. Perché essere ignorato in modo così evidente ed in mia presenza mi sembrava non meno grave ed offensivo che essere trattato male con parole o fatti.

      A volte avevo la sensazione di essere invisibile. Parlavano tra di loro delle vicende della classe e degli altri compagni, ma con me o di me sembrava che nessuno volesse parlare. Certo se domandavo qualcosa mi venivano date le risposte o le spiegazioni che chiedevo, ma con formalità, come se fossi un estraneo, o un professore; anzi, coi professori avevano più confidenza. Direi invece come se fossi stato di un'altra classe, o di un altro mondo. E di questo soffrivo terribilmente.

      Per fortuna mi restavano ancora gli amici della mia vecchia classe, e avevo comunque molti interessi extrascolastici: questo da un lato mi permise di sopravvivere, facendo sì che il mio orgoglio ferito non scoppiasse, e dall'altro mi consentì di osservare la mia nuova situazione con un distacco ed una razionalità quasi da studioso, come se non si trattasse di me.

      In classe li sentivo regolarmente prendere accordi per vedersi fuori, in genere il sabato pomeriggio, e andare ora al cinema, ora al luna park, ora chissà dove. Magari non erano i miei svaghi preferiti, magari avrei rifiutato, ma mi sarebbe piaciuto moltissimo essere invitato.

      Mi sforzai per un po' di trovare mie eventuali colpe o responsabilità in questo tipo di comportamento. Lo attribuii dapprima al fatto che non usassi quel tipo di moderni aggeggini tascabili - colorati e tanto di moda - per giocare, guardare l'ora, telefonare o chissà cosa. Forse era motivo di inconfessato o inconscio disprezzo nei miei confronti. Ma anche altri non l'avevano, e per questa ragione erano magari affettuosamente canzonati o sbeffeggiati, il che per me sarebbe stato sempre molto meglio che essere ignorato.

      Ipotizzai allora che la spiegazione di tutto fosse la mia diversa religione. Per verificarlo decisi che avrei seguito anch'io le lezioni di religione cattolica, così come buona parte della classe. E per questa mia decisione, tra l'alto, oltre a smuovere la burocrazia scolastica ebbi anche a venire in contrasto con mio padre. Mi diede del pecorone, del senza coraggio, senza cuore e senza testa. Ragiona, mi disse: se ti discriminassero a motivo della loro religione, non sarebbe questa una valida motivazione per disprezzarla?

      Ma siccome mio padre era un uomo saggio, alla fine convenne che era giusto che io sperimentassi con mano, che facessi le mie esperienze, in modo che le mie scelte fossero più consapevoli. E non mi portò rancore.

      Mio padre aveva ragione: avrei dovuto disprezzare quella religione se, avvicinandomi ad essa, fossi stato per incanto accettato, invitato ad uscire, considerato come uno della classe. Ma così non fu. A parte un certo piacevole stupore nell'insegnante di religione, non cambiò nulla.

      Io abitavo proprio di fronte alla scuola. Sapevo quando i ragazzi si incontravano là sotto per le loro uscite, e per andare dove; e così a quell'ora guardavo fuori dalla finestra, per vedere dall'alto chi c'era, quello che facevano, come si comportavano. In genere si ciondolavano là davanti per quindici venti minuti, a volte per aspettare qualche ritardatario, a volte senza motivo, e poi si dirigevano come un gregge nella direzione attesa. Erano piccoli e buffi, visti da lassù.

      Le prime volte osservavo queste scene con straziante dispiacere; ma poi sempre più con curiosità. Alle volte aprivo anche i vetri, per cercare di captare qualche parola o qualche discorso, cosa che però mi riusciva solo con qualche persona.

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