La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892. Various
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СКАЧАТЬ All'ospite era squisita cortesia, offrire il Castellano un posto nel suo proprio letto. E sempre o una dama, o una vecchia fante, dormiva o nel lettuccio accanto o nel letto istesso della Castellana. Di questa singolare, e a giudizio dei nostri tempi, fastidiosissima usanza, sono piene le novelle. E poichè, bisogna pur dire ogni cosa, la domestica non si rimoveva di camera, nemmeno quando il rimanervi la riduceva a terzo incomodo; se non che i signori, quasi non avendola in conto di creatura umana, nulla curavano di lei.

      Com'era vestito, messer Castellano faceva le prime devozioni prostrato all'inginocchiatoio, e la Castellana nel piccolo oratorio adiacente alla sua camera. Bello e raccolto luogo di preghiera, colla vôlta azzurra a crociere dorate e tutto stellato il cielo e colle pareti dipinte a figure preganti inginocchiate fra l'erbe ed i fiori di un prato. Spesso quelle devote imagini raffiguravano la Castellana ed il signore, riconoscibili all'arme di famiglia che portano sulle vesti, e in fondo al prato sorgeva l'imagine del castello, dalle cui torri ascendeva fra nimbi al cielo un volo di angeli e di santi.

      Poi tutta la famiglia si raccoglieva ad ascoltare la messa ed a comunicare nella ricca e fastosa cappella, servita da un cappellano che risiedeva in castello, dopo di che Madonna dava una prima capata alle cucine, Messere alle scuderie o alla sala dell'armi dove attendeva ad armeggiare coi figlioli o cogli ospiti o cogli scudieri, e le figliole girellavano nel giardino cogliendo fiori e dedicandoli intenzionalmente a lontani od a prossimi sospiranti. Quando la casa non aveva ospiti, i giorni del bucato, la signora e le figliuole non disdegnavano scendere nell'orto a sciorinarvi i panni, e nemmeno sdegnavano portarveli stillanti nelle ceste a ciò destinate, o se non era l'orto era qualche alta terrazza vicina al tetto. Altro ufficio della Castellana e delle figliuole, è la cura delle tappezzerie e degli arazzi, che si tengono piegati su appositi scaffali nella stanza chiamata per l'appunto: la guardaroba delle tappezzerie, è collocata di solito all'ultimo piano il più asciutto della casa ed il meno polveroso. Le fanti vi passano intere giornate a spiegare, battere, rimendare e ripiegare i preziosi paramenti, ma tale è il loro valore ed in tale pregio sono tenuti, che per lo più vi attende direttamente la padrona. Ben inteso, che a queste piccole cure le Castellane non andavano vestite di broccato, di raso o di tocca, quali ce le soliamo raffigurare. Simili vesti passavano per eredità dalla madre alla figliuola, onde è a credere che non le portassero se non nelle grandi occasioni. In casa, anzi, il vestire era dimesso, forti panni paesani a colori oscuri, biancheria grossa ed ahimè mutata di rado, ed ai piedi certe grosse pantofole di panno.

      Del signore poi non parliamo che tra le armi, la caccia, le scuderie e le visite ai poderi, Dio sa come si trovasse conciato la sera. Alle dieci della mattina uno squillo di corno annunzia il desinare. Anche nei giorni ordinari, sono molti e grossi piatti: carni di bue, di cinghiale, di capriolo, di montone, galline, fagiani, e via dicendo, condite e fatte piccanti da salse formidabili, tutte aromi e pizzicori mordenti, pepe, gorofano, cannella, ginepro, ambra, belzoino, noce moscata, anice ed altre nostrane ed orientali delizie, sulle quali primeggiavano pur troppo l'aglio e la cipolla. Tale copia, scelta, e condimento di vivande, sono fatte apposta per stimolare la sete cui provvedono le ben fornite cantine che non più contente del prodotto paesano, già accolgono una ricca varietà di vini italiani e forestieri cotti e crudi. Cocevano per conservarlo più a lungo, il vin greco di malvasia, venuto di Candia, che solevano condire con aromi. Fra gli italiani era famoso un certo vino di Piacenza che nessuno più conosce, se pure non proveniva dai colli di Voghera e di Stradella, e del quale facevano grande incetta anche le cantine francesi. Erano gustati assai i vini di Toscana e di Sicilia, e fra i piemontesi il Nebiolo ed il Caluso. Ma a leggere i novellieri, non pare che presso di noi le copiose e robuste bevute degenerassero o era caso raro, in quelle brutali cotte di che menavano vanto i signori di Francia e di Allemagna. I novellieri italiani parlano raramente di gente briaca, nè si sarebbero astenuti dal farlo, quando ne avessero trovato frequente argomento nella vita del tempo loro.

      La tovaglia della tavola usava larghissima e pendente quasi fino a terra perchè i lembi cadenti facevano l'ufficio del tovagliolo che ancora non costumava, ed a quelli si forbivano i commensali. Sempre al cominciare e al finire del pranzo era data l'acqua alle mani. Acque profumate, di solito alla rosa; e di profumi facevano poi grande abuso in ogni momento della giornata. Innanzi di portare in tavola un piatto, la sospettosa vigilanza dei Castellani voleva che se ne facessero palesi assaggi, paurosi come essi erano di veleno, e usavano pure tenere sulla tavola specifici ed amuleti contro l'azione dei veleni. Il Cibrario scrive, che nell'inventario delle gioie di Carlo I duca di Savoia (l'anno 1480) è registrata: “une espreuve plaine de langues de serpans pour tenir sur la table pour eviter le venyn„ ed aggiunge che forse era destinata allo stesso ufficio, o ad ogni modo, era tenuta in conto di amuleto, una “pierre, noire crapaudine, garnie a une chainette d'or„, compresa nello stesso inventario.

      Dopo il pranzo che era protratto quanto più lungamente si poteva, il signore faceva quella siesta, che fu bazza per i novellieri. I fanciulli, dopo alcun tempo dato ad esercizi fisici, riparavano poi col pedagogo nella libreria (dove erano, caso raro, librerie), o nella stanza data agli studii. Si trovano ancora in parecchi castelli certe stanzette, all'ultimo piano, recanti sui muri, segnate in rosso, le figure elementari della geometria con scritture che datano certamente dal secolo XV. La Castellana e le figliuole riparavano nelle camere loro, ed attendevano, nella speranza di qualche visita, ad adornarsi. O forse in quell'ora le giovinette aggirandosi in ozio per la casa confidavano alle nude muraglie della scala e dei corritoi, i segreti movimenti del loro cuore, incidendovi motti, date, pensieri e sentenze amorose. O andavano rintracciando e rileggendo le sentenze scrittevi da altri che erano come lettere al loro recapito.

      Il Castello d'Issogne serba molte di tali scritte che ci danno a conoscere il nome, ed in certa misura l'animo degli ospiti che vi dimorarono. Vi fu ospite un tale Escobar che segnò sulle pareti il proprio motto: Selon le pouvoir, colla firma e la data. Vi passarono pure un tedesco, Wolf. Sckonfletter, ed un francese, De Vateuil, il quale fa precedere al proprio nome queste parole sibilline: Non sans cause. Un messere P. Gran scrive: In Omnes et ad omnia fidus, e lo stesso Escobar di pocanzi tornatoci una seconda volta: No piedo mas fortuna, più non cerco fortuna, onde è a credere che l'avesse trovata, o che si fosse rassegnato a disperarne per sempre. E ancora l'Escobar sentenzia: Palabras de piuma lo viento le lieva. Poi vengono gli anonimi: Qualis homo talia opera. A mala fama caveas. Sic vive ut postea vivas. Ed i consigli igienici:

      Carolus ægrotus faciunt ieunia morbum,

      Ut recte valeas, Carole sume cibum.

      Un altro tedesco apre l'animo con due versi così ingenui e sinceri che muovono a pietà.

      Per non mostrar el mio dolore

      Talvolta rido che crepe el cuore.

Thoma Druenwald. von Nuremberg.

      Durante un periodo di tre anni, a giudicarne dalle date, si direbbe che sia passato nella valle e sul castello un vento caldo, tutto impregnato di olezzi stimolanti; un vento snervatore e tentatore, soffiato dal demonio per scombuiare l'animo delle castellane. Sui muri, abbondano sentenze d'amore ripetute a sazietà, scritte sempre dalla stessa mano, mano femminile, mano padronale e signoresca, poichè ebbe agio di confidare a tutte le stanze del castello la piena dell'animo. Quella che s'incontra più spesso dice: Omnia vincit amor, l'amore vince ogni cosa, sentenza che colma le distanze gerarchiche, ed afferma la assoluta sovranità del piccolo Dio. Un'altra dice: Non est amor imo dolor, mulieris amor. Non è amore, ma dolore, l'amore della donna. Dolore, è a credere, di virtù resistente; se non che la resistenza poco dura e l'amore finisce veramente per vincere ogni cosa, poichè l'anno appresso, la stessa mano scrive: Vivamus et amemus, grido di gioia spensierata, allegro ritornello di una canzone forse malinconica. Infatti, in poco d'ora, l'idillio si chiude in elegia e l'angoscia esce in lamenti in ogni parte della casa, colle scritte: In me turbatum est cor meum, in me turbato è il mio cuore, e: Meror et dolor venerunt super me: il pianto ed il dolore vennero sopra di me, le quali si incontrano in ogni dove, sulla scala, negli anditi, nelle camere delle donne.

*

      Riprendiamo la nostra giornata.

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