L'innocente. Gabriele D'Annunzio
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Название: L'innocente

Автор: Gabriele D'Annunzio

Издательство: Public Domain

Жанр: Зарубежная классика

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СКАЧАТЬ alla Badiola. Le accompagnava mio fratello. Io rimasi a Roma.

      Da quel tempo incominciò per me un periodo tristissimo, oscurissimo, il cui ricordo ancóra mi riempie di nausea e d’umiliazione. Tenuto da quel sentimento che meglio di ogni altro rimescola il fango essenziale nell’uomo, io patii tutto lo strazio che una donna può fare di un’anima fiacca, appassionata e sempre vigile. Accesa da un sospetto, una terribile gelosia sensuale divampò in me disseccando tutte le buone fonti interiori, alimentandosi di tutto il fecciume che posava nell’infimo della mia sostanza bruta.

      Teresa Raffo non m’era parsa mai desiderabile come ora che non potevo disgiungerla da una imagine fallica, da una sozzura. Ed ella si valeva del mio stesso disprezzo per inacerbire la mia brama. Agonie atroci, gioie abiette, sottomissioni disonoranti, patti vili proposti ed accettati senza rossore, lacrime più acri di qualunque tossico, frenesie improvvise che mi spingevano sul confine della demenza, cadute nell’abisso della lussuria così violente che mi lasciavano per lunghi giorni istupidito, tutte le miserie e tutte le ignominie della passione carnale esasperata dalla gelosia, tutte io le conobbi. La mia casa mi divenne estranea; la presenza di Giuliana mi divenne incresciosa. Intere settimane passavano, talvolta, senza che io le rivolgessi una parola. Assorto nel mio supplizio interiore, io non la vedevo, non la udivo. In certi momenti, levando gli occhi su lei, mi meravigliavo del suo pallore, della sua espressione, di certe particolarità del suo volto, come di cose nuove, inaspettate, strane; e non giungevo a riconquistare intera la nozione della realtà. Tutti gli atti della sua esistenza m’erano ignoti. Io non provavo alcun bisogno d’interrogarla, di sapere; non provavo per lei alcuna inquietudine, alcuna sollecitudine, alcun timore. Una durezza inesplicabile mi fasciava l’anima contro di lei. Anche, talvolta, io avevo contro di lei una specie di vago rancore, inesplicabile. Un giorno la sentii ridere; e il suo riso m’irritò, mi fece quasi ira.

      Un altro giorno palpitai forte, udendola cantare da una stanza lontana. Cantava l’aria di Orfeo:

      Che farò senza Euridice?…

      Era la prima volta, dopo lungo tempo, che ella cantava così, movendosi per la casa; era la prima volta che io la riudiva, dopo lunghissimo tempo. – Perché cantava? Era dunque lieta? A quale affetto del suo animo rispondeva quell’effusione insolita? – Un turbamento inesplicabile mi vinse. Andai verso di lei senza riflettere, chiamandola per nome.

      Vedendomi entrare nella sua stanza, ella si stupì; rimase per un poco attonita, in una sospensione manifesta.

      – Canti? – io dissi, per dire qualche cosa, impacciato, meravigliato io stesso del mio atto straordinario.

      Ella sorrise d’un sorriso incerto, non sapendo che rispondere, non sapendo quale contegno assumere davanti a me. E mi parve di leggere nei suoi occhi una curiosità penosa, già altre volte da me notata fuggevolmente: quella curiosità compassionevole con cui si guarda una persona sospettata di follia, un ossesso. Infatti, nello specchio di contro io scorsi la mia imagine; rividi il mio volto scarno, le mie occhiaie profonde, la mia bocca tumida, quell’aspetto di febricitante che avevo già da qualche mese.

      – Ti vestivi per uscire? – le domandai, ancóra impacciato, quasi peritoso, non sapendo che altro dimandare, volendo evitare il silenzio.

      – Sì.

      Era di mattina; era di novembre. Ella stava in piedi, presso a un tavolo ornato di merletti su cui rilucevano sparse le innumerevoli minuterie moderne destinate alla cura della bellezza muliebre. Portava un abito di vigogna oscuro; e teneva ancóra in mano un pettine di tartaruga bionda con la costola d’argento. L’abito, di foggia semplicissima, secondava la svelta eleganza della persona. Un gran mazzo di crisantemi bianchi le saliva di sul tavolo all’altezza della spalla. Il sole dell’estate di San Martino scendeva per la finestra; e nella luce vagava un profumo di cipria o d’essenza che io non seppi riconoscere.

      – Qual è, ora, il tuo profumo? – le domandai.

      Ella rispose:

      – Crab-apple.

      Io soggiunsi:

      – Mi piace.

      Ella prese di sul tavolo una fiala e me la porse. E io la fiutai a lungo per fare qualche cosa, per avere il tempo di preparare un’altra qualunque frase. Non riuscivo a dissipare la mia confusione, a riconquistare la mia franchezza. Sentivo che ogni intimità fra noi due era caduta. Ella mi pareva un’altra donna. E intanto l’aria di Orfeo mi ondeggiava ancóra su l’anima, m’inquietava ancóra.

      Che farò senza Euridice?…

      In quella luce dorata e tepida, in quel profumo così molle, in mezzo a tutti quegli oggetti improntati di grazia feminile, il fantasma della melodia antica pareva svegliare il palpito d’una vita segreta, spandere l’ombra d’un non so che mistero.

      – Com’è bella l’aria che tu cantavi dianzi! – io dissi, obbedendo all’impulso che mi veniva dalla strana inquietudine.

      – Tanto bella! – ella esclamò.

      E una domanda mi saliva alle labbra: «Ma perché cantavi?». La trattenni; e ricercai dentro di me la ragione di quella curiosità che mi pungeva.

      Successe un intervallo di silenzio. Ella scorreva con l’unghia del pollice su i denti del pettine, producendo un leggero stridore. (Quello stridore è una particolarità chiarissima nel mio ricordo).

      – Tu ti vestivi per uscire. Séguita dunque – io dissi.

      – Non ho da mettermi che la giacca e il cappello. Che ora è?

      – Manca un quarto alle undici.

      – Ah, già così tardi?

      Ella prese il cappello e il velo; e si mise a sedere davanti allo specchio. Io la guardavo. Un’altra domanda mi salì alle labbra: «Dove vai?». Ma trattenni anche questa, benché potesse sembrare naturale. E seguitai a guardarla attento.

      Ella mi riapparve quale era in realtà: una giovine signora elegantissima, una dolce e nobile figura, piena di finezze fisiche, e illuminata da intense espressioni spirituali; una signora adorabile, insomma, che avrebbe potuto essere un’amante deliziosa per la carne e per lo spirito. «S’ella fosse veramente l’amante di qualcuno?» allora pensai. «Certo è impossibile ch’ella non sia stata molte volte insidiata e da molti. Troppo è noto l’abbandono in cui la lascio; troppo son noti i miei torti. S’ella avesse ceduto a qualcuno? O se anche stesse per cedere? S’ella giudicasse alfine inutile e ingiusto il sacrificio della sua giovinezza? S’ella fosse alfine stanca della lunga abnegazione? S’ella conoscesse un uomo a me superiore, un seduttore delicato e profondo che le insegnasse la curiosità del nuovo e le facesse dimenticare l’infedele? Se io avessi già perduto interamente il suo cuore, troppe volte calpestato senza pietà e senza rimorso?» Uno sgomento subitaneo m’invase; e la stretta dell’angoscia fu così forte che io pensai: «Ecco, ora le confesso il mio dubbio. La guarderò in fondo, alle pupille dicendole – Sei ancóra pura? E saprò la verità. Ella non e capace di mentire». «Non e capace di mentire. Ah, ah, ah! Una donna!… Che ne sai tu? Una donna è capace di tutto. Ricordatene. Qualche volta un gran manto eroico è servito a nascondere una mezza dozzina di amanti. Sacrificio! Abnegazione! Apparenze, parole. Chi potrà mai conoscere il vero? Giura, se puoi, su la fedeltà di tua moglie: non dico su quella d’oggi ma soltanto su quella anteriore all’episodio della malattia. Giura in perfetta fede, se puoi.» E la voce maligna (ah, Teresa Raffo, come operava il vostro veleno!), la voce perfida mi agghiacciò.

      – Abbi pazienza, Tullio, – mi disse, quasi timidamente, Giuliana. – Mettimi questo spillo qui, nel СКАЧАТЬ